Il design sta cambiando il mondo più di quanto ci rendiamo conto.
Lo scrive Paola Antonelli, curatrice del MoMA: «Nei prossimi decenni il resto del mondo si metterà alla pari e il design diventerà la metodologia e la filosofia dei politici, scienziati ed economisti desiderosi di adottare una prospettiva umana, olistica e costruttiva».
Il design non dà più solo forma agli oggetti e ai mobili che usiamo ogni giorno, ma riguarda il campo dell'interazione, le interfacce, il web, le rappresentazioni grafiche, e anche le infrastrutture, oltre ovviamente al nostro stesso corpo.
Un esempio eloquente è fornito dal «food design».
Il cibo, come si sa, non è più quello di una volta; non per via di una qualche manipolazione alimentare, ma per il suo aspetto visivo. Ha ora una forma post-artificiale.
Stefano Maffei e Barbara Parini in «Food Mood» (Electa) ci fanno da mentori nella visita guidata a questa mutazione: Foodpeople, Foodexperience, Foodproducts.
Partiamo dalle attività che un tempo si connettevano al cibo.
Michael Pollan, autore de «Il dilemma dell'onnivoro» (Adelphi) lo racconta così: ieri i verbi della nostra relazione col cibo erano: coltivare, raccogliere, cacciare, pescare, conservare, trasformare, mangiare, utilizzare gli scarti.
Ora sono: acquistare, conservare, mangiare.
Siamo distanti due passaggi da quel mondo che Piero Camporesi ha raccontato nei libri dedicati al mondo preindustriale e contadino.
A metà degli Anni 50 in Italia si sono rotti i cicli e le tradizioni alimentari che funzionavano da centinaia, forsemigliaia di anni; è entrata in scena l'industrializzazione con la globalizzazione progressiva delle catene alimentari.
L'effetto è stato quello di trasformare in profondità i legami sociali, culturali, economici e produttivi: la sessualità e insieme il cibo.
Ferran Adrià
Le tecnologie sono diventare importanti per definire l'alimentazione; prima hanno agito sul colore, l'odore, la consistenza, poi sulla «forma».
Poi è iniziata la progressiva estetizzazione di ogni attività umana; l'arte è diventata parte del «food design» sin dagli Anni 90.
A quel punto si è modificata la stessa ristorazione e sono apparsi i designer dell'esperienza alimentare.
Il più celebre è Ferran Adrià con il suo decalogo «Síntesis de nueva cocina», la cui prima frase recita: «La cucina è un linguaggio mediante il quale si può esprimere armonia, creatività, felicità, bellezza, poesia, complessità magia, humor, provocazione».
Mentre la più celebre è: «Si cancellano le barriere tra il mondo dolce e quello salato. Importanza del mondo gelato salato e della cucina fredda in generale».
Da Adrià discendono molti dei designer del cibo (chiamarli cuochi è limitativo) censiti dal libro edito da Electa: Massimiliano Alajmo, Jaua Marì Arzan, Alex Atala, Dan Barber, Heston Blumenthal, Massimo Bottura, Carlo Cracco, e altri ancora.
Questa è la cucina post-post-industriale, fondata sugli sperimentatori della «food experience», che varcano il confine che lega gli atti alimentari alla cucina stessa.
Un altro esempio: Alajmo con Lorenzo Dante Ferro, maestro profumiere, ha creato una linea di «profumi edibili», estraendo dalla cucina gli ingredienti utilizzati per racchiuderle in boccette; così l'essenza in forma spray può essere spruzzata sui cibi e piatti in modo controllato.
La tendenza è, come nel caso di Arzak, designer basco, a superare il legame tra cibo e gusto nella direzione dell'«esperienza multisensoriale».
Azar ha creato una banca dei sapori. Questo cambio di paradigma alimentare è simile a quello che il gruppo Alchimia (Sottsass, Mendini, De Lucchi e altri) ha realizzato nel design degli oggetti a fine Anni 70.
Adrià, che ha aperto una propria scuola-fondazione, Fondazione Alicia, collabora con uno scienziato, Pere Castell, nella creazione di un «lessico scientifico e gastronomico»: un ponte tra scienza alimentare e cultura della cucina.
Il passaggio è dunque al post-artificiale: il cibo non si smaterializza, ma assume la forma di un «oggetto», in cui naturale e artificiale si fondono. Lo si vede bene guardando le immagini dei cibi di questi «food designer» e osservando l'arredamento e la disposizione dei ristoranti, negozi e supermercati.
È come se il cibo portato in tavola avesse ridisegnato i luoghi stessi, e insieme il packaging.
Naturalmente molte cose descritte da Maffei e Parini sono differenti tra loro, ma il «frame» costruito dagli autori fa ritenere che queste tendenze, ora riservate all’alta cucina, cambieranno presto le forme della distribuzione alimentare, oltre alla produzione, e le stesse pratiche di attivismo culturale e sociale legate al cibo.
È una sorta di social network del cibo che tende al gioco e all'intrattenimento, e che probabilmente vedremo all'opera nel 2015 all'Expo milanese.
Un ulteriore aspetto della trasformazione in atto: l'industria culturale si presenta come la principale forma d'innovazione, e dunque di accumulazione economica, nel regno dell'immaterialità del XXI secolo.