Vincenzo Marchese - Il cielo di Chicago
Racconto della Settimana 26-07_02-08/2008
Approfittiamo del racconto settimanale per fare un giro nella città di Chicago...
Avete mai visto Chicago di notte?
Il blu predominante, così misteriosamente tecnologico, avvolge i grattacieli che si specchiano tra loro e riflettono il cielo.
Il vento che s’incanala tra palazzi alti e bassi cambiando intensità e direzione.
Un vento più caldo nei vicoli più stretti.
Le foglie d’autunno trasportate dalla quinta alla settima strada disegnando geometrie diverse.
Chicago è una città di uomini, grattacieli, strade, taxi, hotdog, velocità e rumore.
Quando guardo Chicago immagino un cono, un grande cono, di vetro, un cono trasparente che racchiude tutto l’abitato e lo taglio in tanti livelli di rumore.
Il basso che inquina l’alto.
Tacchi, tacchi, tanti tacchi, brusche frenate, gomme sull’asfalto, chiavi che si lasciano cadere a terra, calci ad un pallone, ad una lattina, ad un sacchetto.
Che gran rumore che facciamo!
Un cono aumenterebbe il rumore ma gli uccellini per fortuna riescono a volare alto.
Mi sembra piccola Chicago.
Minuscoli puntini, e quelli sono gli uomini.
Tanti piccoli grattacieli, apparentemente disposti a caso.
È ridicolo pensare che quella minuscola cosa laggiù sia Chicago.
Ma nella vita ciò che sembra piccolo si può rivelare grande.
E più mi lascio cadere e più avverto che sono piccolo e divento più piccolo rispetto ad un grande che diventa più grande.
Come è bella e pulita l’aria qui.
Ha un profumo suo.
Io una volta sono stato a Chicago.
Su di un marciapiede vicino ad un ristorante ed anche in un vicolo chiuso.
Chicago mi fece una strana impressione.
Forse perché così diversa dal cielo.
Ricordo che ero molto preoccupato: troppi pericoli, troppi gatti, troppo rumore.
Ma quell’ansia e quell’adrenalina mi permisero di percepire.
Mi lasciai, mi abbandonai alla percezione di tutto.
La strada aveva un odore fortissimo, caratterizzante di enormi quantità di cose buttate, lasciate, abbandonate ad una morte disonorevole.
Lattuga, carote, hamburger e tanta plastica, traboccanti da bidoni semichiusi.
Eppure, quel disordinato miscuglio di odori era la vita di Chicago, erano gli odori di una città, di chi mangia cosa, di chi cammina cosa.
Due cose mi facevano pensare e, forse, soffrire.
Perché io, perché finire in qualche angolo di strada la mia esistenza?
Credo ci sia una sola risposta: l’ordine naturale delle cose.
La vita sembra scegliere, per te, il destino estremo.
La vita sa essere satirica.
Morirai laddove non hai mai portato amore, nell’indifferenza, oppure morirai laddove hai lasciato tante sane e buone percezioni all’inanimato cortile delle cose.
Io sono una piuma.
Sono la piuma, una piuma di uccello, una piuma che si distacca dalla sua famiglia per intraprendere un lungo e lento viaggio nel vuoto.
Ed io, piuma, che conobbi per un solo istante della mia vita quel disperato e frenetico mondo, stavo per “arricchirlo”.
Qualcuno noterà questa piccola piuma che tanto ha sognato, seppur solo piuma?
Qualcuno raccoglierà questa, bella dentro tanto quanto brutta fuori, piuma ornando il capo di un piccolo indiano di pioppo?
Qualcuno mi stringerà tra le dita, osservandomi e capendo quale tipo di volatile ha piume siffatte, quale fosse stata la mia famiglia?