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Gli occhi addosso

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view post Posted on 20/9/2012, 16:30     +1   -1
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Gli occhi addosso

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Effetto riflettore e illusione di trasparenza




Molte delle situazioni che affrontiamo nelle interazioni quotidiane richiedono particolari abilità sociali, fra cui quelle che entrano in azione quando dobbiamo capire il modo in cui gli altri ci vedono e ci giudicano.



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Un Esempio. A quanti è capitato di entrare in una sala e chiedersi: «Perché tutti mi stanno osservando? Hanno notato il mio imbarazzo? Quanti si sono resi conto del modo impacciato con cui sono entrato in sala?».

Domande come queste non solo sono in grado di suscitare risposte più o meno sicure, ma possono anche influenzare il modo in cui si reagisce ai giudizi degli altri, vivendo con maggiore o minore disagio ed ansia non solo le circostanze imbarazzanti, ma anche le normali situazioni sociali che deve affrontare.

Fenomeni come l'effetto riflettore, per cui si sovrastima l’attenzione che gli altri rivolgono alla nostra persona, e l'illusione di trasparenza, per cui si pensa che la nostra mente sia come un libro aperto a disposizione della curiosità di chi ci osserva, possono incidere pesantemente sulle modalità di autopresentazione e complicare non poco la qualità delle relazioni interpersonali.



Il bias egocentrico



Gli psicologi sociali hanno da tempo focalizzato la loro attenzione sul modo in cui le persone pensano di essere viste e giudicate dagli altri, convinti che l’analisi dei fenomeni di percezione interpersonale e di attribuzione causale possa essere un’interessante chiave di lettura anche di alcune manifestazioni patologiche della vita di relazione.

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Il punto di partenza di questa analisi si situa in una tendenza sistematica che numerosi ricercatori hanno evidenziato e alla quale hanno dato il nome di “bias egocentrico”: si tratta di una predisposizione a focalizzare l’attenzione sui propri comportamenti, sul proprio modo di apparire, sui propri stati emotivi, focalizzazione che poi può portare a sovrastimare il grado in cui tali fattori diventano salienti anche agli occhi degli altri.

Sulla base di questa tendenza sistematica le persone sono portate a credere che le loro azioni occupino l’attenzione, suscitino l’interesse e attivino i giudizi di coloro con cui entrano in contatto nelle interazioni quotidiane. Consideriamo, per fare un esempio che è già stato proposto da Goffman (1963), il caso di una persona che si trovi a mangiare da sola al ristorante. Si tratta di un’esperienza che nella maggior parte dei casi viene considerata come poco piacevole o addirittura imbarazzante: chi si trova in questa situazione ha l’impressione di avere tutti gli occhi addosso e di essere considerato un individuo “diverso” dagli altri. Per cui capita che le persone s’inventino modalità di comportamento adatte a mascherare o porre sotto una luce favorevole il fatto che sono sole. Alcune chiedono tout court un tavolo nell’angolo più remoto, in modo da rendersi il più possibile invisibili. Altre si portano dietro delle carte e durante il pasto mostrano di essere impegnate in un lavoro per la cui esecuzione era opportuna proprio la solitudine che hanno cercato. Quelle dotate di maggior inventiva degustano con attenzione e spirito critico i cibi e le bevande e prendono appunti con sistematicità, lasciando intendere che sono dei consulenti di una guida gastronomica alle prese con un impegnativo lavoro di valutazione.
Si tratta di strategie di autopresentazione che le persone giocano ad uso e consumo degli altri, nella convinzione che questi siano particolarmente interessati ai loro comportamenti e al loro apparire soli. Lo sforzo per mettere in piedi questa sorta di recita è normalmente eccessivo rispetto alla realtà delle cose: di solito i commensali che popolano i ristoranti sono più impegnati a chiacchierare e a degustare cibi e bevande che non a prendersi cura del solitario avventore. E quand’anche gli prestassero attenzione, come nella foto accanto, perché dovrebbero notarlo per la sua solitudine piuttosto che per altre positive qualità esteriori? Ciò nonostante, l’idea di essere sotto gli occhi di tutti resta fastidiosa, pervasiva e capace di imporsi in molte situazioni pubbliche. In che modo questa sensazione, che può diventare anche molto spiacevole, si manifesta?



L'effetto riflettore



L’ipotesi che alcuni ricercatori hanno avanzato è che le persone tendano ad esagerare il grado in cui sono al centro dell’attenzione degli altri.
Spesso sono portate a collocarsi su una sorta di “ribalta sociale” e a immaginare che un proiettore illumini di luce intensa i loro comportamenti, mentre in realtà la luce è molto meno brillante e la loro visibilità molto minore di quel che pensano. Questo fenomeno, cui è stato dato il nome di “spotlight effect” (Gilovich e Savitsky, 1999), ossia “effetto riflettore”, è stato documentato in una varietà di contesti sperimentali.


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Eccone uno che servirà per illustrare il modo in cui la ricerca ha affrontato il problema.
In una situazione sperimentale, per circa mezz’ora vengono coinvolte alcune persone a partecipare ad un gruppo di discussione su un tema particolarmente appassionante.
Ciascuna di queste persone viene poi fatta accomodare in una postazione isolata e interrogata sulle prestazioni messe in luce da ciascuno dei partecipanti durante la discussione.
Le domande riguardano valutazioni del tipo:
-«In che misura quella particolare persona ha contribuito alla discussione del gruppo?», oppure:
«Chi ha fatto la maggior quantità di errori di pronuncia durante la discussione?», o ancora:
«Chi ha prodotto la maggior quantità di commenti a proposito delle cose dette da altri?».

Il soggetto interrogato deve insomma valutare su un’apposita scala ciascuno dei partecipanti alla discussione, includendo anche se stesso, e contemporaneamente deve prevedere il giudizio espresso dall’intero gruppo, sempre nei confronti di ogni partecipante. I giudizi così raccolti consentono di mettere a confronto le valutazioni che ciascun partecipante ritiene di aver ricevuto dagli altri membri del gruppo con quelle che questi hanno effettivamente formulato su di lui.

I risultati evidenziano, come previsto, un sostanziale atteggiamento di tipo egocentrico.
Le persone interrogate pensano di aver ottenuto una valutazione più alta e polarizzata su tutte le dimensioni di giudizio, sia quelle positive, sia quelle negative, da parte degli altri partecipanti, rispetto a quanto non sia effettivamente avvenuto.
Quindi implicitamente ritengono che la loro partecipazione al gruppo di discussione sia stata rischiarata da un fascio di luce intenso, di cui, per la verità, sono stati gli unici ad accorgersi.
Se siete interessati e ne avete voglia, potete voi stessi progettare un semplice esperimento per verificare l’affidabilità dei risultati ottenuti in laboratorio.
Fate indossare ad un vostro amico una maglietta con un disegno strano: chiedetegli poi di inserirsi normalmente in un gruppo riunito per una festa. Alla fine della serata domandate separatamente a ciascuno dei partecipanti se ricorda il disegno che compariva sulla maglietta del vostro amico. Chiedete inoltre al vostro amico di stimare il numero di persone che ricordano correttamente ciò che indossava. Scoprirete che l’amico in questione sovrastima di circa il doppio il numero di coloro che hanno notato il disegno sulla maglietta. In sostanza, potrete constatare che le persone sono molto meno al centro dell’attenzione degli altri di quanto pensano.



La paura di osare



Al di là dei curiosi risultati di ricerca e delle evidenze che emergono dalle osservazioni della vita quotidiana, quali sono le conseguenze meno dirette che possono essere ricondotte all’effetto riflettore?
Una particolarmente importante è la paura di osare.


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Se chiedete alle persone di fare una sorta di bilancio della loro vita e di pensare ai casi e alle situazioni per le quali hanno provato maggiore rimpianto, scoprirete che rievocheranno molto più frequentemente sentimenti di rimpianto per cose che non hanno realizzato piuttosto che per cose che hanno fatto: ad esempio, non aver studiato una lingua straniera, oppure non essersi riconciliati con un amico dopo una situazione di crisi, non aver approfondito lo studio di uno strumento musicale, non aver scelto una certa facoltà universitaria...
A ben guardare, tutti i sentimenti di rimpianto per decisioni non prese o iniziative non realizzate sembrano avere una radice comune, ossia il pericolo avvertito di esporsi ad un insuccesso e la probabilità di essere considerato in maniera negativa dagli altri. è facile immaginare pensieri del genere:
- «Non le ho mai chiesto di uscire con me perché ho pensato che avrebbe potuto dirmi di no; cosa ne sarebbe stato della mia reputazione?», oppure:
- «Ho capito che la decisione era matura, ma ero terrorizzata da quanto avrebbero potuto pensare i miei amici se le cose non fossero andate per il verso giusto», o ancora:
- «Quante volte mi è mancato il coraggio di eseguire davanti al pubblico quel pezzo di pianoforte! E ora non me la sento più di rischiare.».



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È facile individuare in tutte queste mancate realizzazioni il ruolo cruciale dell’effetto riflettore.

Le persone finiscono per evitare di compiere certe azioni a causa della preoccupazione esagerata che, in caso di fallimento, tutti gli altri, considerati come degli attenti spettatori, si accorgano del fiasco e siano pronti a fischiare.

I dati di ricerca che abbiamo precedentemente presentato ci confermano invece nella convinzione che gli altri sono molto meno attenti ai nostri comportamenti e poco inclini a valutarli più di quanto noi non sospettiamo.

A lungo andare la consapevolezza di queste occasioni mancate può portare a un doloroso rimpianto, tanto più avvertito quanto più aumenta la consapevolezza che era effettivamente possibile raggiungere un successo e quanto meno appaiono pericolose le possibili valutazioni degli osservatori.

Se le indicazioni a proposito della pervasività dell’effetto riflettore sono corrette, cosa suggerire allora alla persona che desidera realizzare un certo progetto ma che esita pensando alle valutazioni negative degli altri in caso d’insuccesso?

Il consiglio più assennato in situazioni come questa è di suggerire decisione, addirittura audacia, tenuto conto che anche in caso di fallimento le conseguenze sociali normalmente sono meno temibili di quanto uno sia portato a pensare.

Di solito gli altri sono troppo impegnati con le loro preoccupazioni per prendersi cura degli insuccessi altrui.



Verso la patologia


Fin qui abbiamo considerato situazioni abbastanza frequenti e quotidiane, certamente spiacevoli ma non patologiche.



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Per alcuni, però, il timore di essere al centro dell’attenzione e di diventare bersaglio di valutazioni critiche da parte degli osservatori va così oltre da portare alla paralizzante condizione dei disturbi provocati dall’ansia sociale.

Se è vero che, a parere dell’associazione degli psichiatri americani, la fobia sociale si caratterizza per «una marcata e persistente paura ad affrontare situazioni sociali nelle quali può manifestarsi imbarazzo», in alcune circostanze il timore del giudizio degli altri diventa talmente sproporzionato rispetto ai rischi effettivi di fare brutta figura, da assumere una vera e propria configurazione di comportamento patologico.

Non a caso una terapia di tipo cognitivo comportamentale messa recentemente a punto per trattare i fenomeni di fobia sociale si basa proprio sull’apprendimento di stime probabilistiche più realistiche a proposito del grado di attenzione degli altri nei nostri confronti.
Spingendoci oltre, troviamo poi che l’effetto riflettore può avere qualcosa a che fare anche con la paranoia. Come è noto, una delle componenti di base di tale disturbo è l’esagerata tendenza del malato a percepire il comportamento degli altri come focalizzato su di sé e la sua impressione costante di essere una sorta di bersaglio dell’attenzione altrui.

Alcuni autori hanno individuato un’analogia tra le manifestazioni di tipo patologico e i comportamenti delle persone non malate: alla base c’è una spiccata consapevolezza di sé e la preoccupazione di essere al centro dell’attenzione e della valutazione degli altri. Non sono rare le situazioni in cui anche le persone “normali” manifestano caratteristiche, come i pensieri centrati sul sé, atteggiamenti sospettosi, attribuzione agli altri di intenzioni ostili, ecc., che possono ricordare le manifestazioni di tipo paranoide.



L'illusione di trasparenza



Un’esperienza per molti versi collegata all’effetto riflettore è quella che gli psicologi sociali hanno definito “illusione di trasparenza”. Si tratta della tendenza che le persone manifestano a ritenere che i loro pensieri, sentimenti e stati emotivi si rendano visibili agli osservatori esterni in misura maggiore di quanto in realtà non avvenga.


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Torniamo per un momento all'esempio dell'inizio in cui parlavamo degli interrogativi che ci si pone, talvolta, fra sé e sé, entrando in sala («Perché tutti mi stanno osservando? Hanno notato il mio imbarazzo? Quanti si sono resi conto del modo impacciato con cui sono entrato in sala?»).
L’illusione di trasparenza produce la sensazione che quegli interrogativi non siano un fatto interno e privato, ma piuttosto esterno e pubblico, che siano cioè immediatamente e facilmente percepibili dagli astanti.
Anche se siamo consapevoli che nessuno può leggere nei nostri pensieri e che non esiste alcun accesso diretto agli stati interni della nostra mente, pure abbiamo spesso la sensazione di essere una sorta di “libro aperto” a disposizione della curiosità dei nostri simili.
Ma vediamo adesso in che modo questa illusione è stata analizzata nel contesto di un’indagine empirica.
I partecipanti ad uno strano esperimento sul gusto delle bevande furono convocati uno alla volta in laboratorio: dovevano assaggiare cinque diverse pozioni sapendo che, durante l’esecuzione del compito, le espressioni del loro volto sarebbero state videoregistrate.
Le istruzioni avvertivano che tra le cinque bevande, tutte dello stesso colore, ce ne era una dal gusto particolarmente sgradevole. L’assaggiatore doveva evitare di manifestare espressioni particolari durante la prova, in modo da impedire ad un osservatore esterno di individuare la bevanda sgradevole.
Alla fine della prova all’assaggiatore veniva chiesto di stimare il grado in cui era riuscito a seguire le istruzioni e quanto invece il disgusto che aveva provato era emerso come espressione del volto, malgrado i suoi tentativi di celarlo.
Concretamente doveva indicare il numero di osservatori che, seguendo la videoregistrazione della sessione, avrebbero individuato, a partire dalle espressioni del volto dell’assaggiatore, la bevanda dal sapore disgustoso.
Gli sperimentatori erano quindi in grado di confrontare le stime fornite dagli assaggiatori con l’abilità effettivamente messa in luce dagli osservatori nell’individuare le espressioni corrispondenti alla bevanda incriminata. Come andarono le cose?
Come probabilmente i lettori possono aver già immaginato, gli assaggiatori rimasero vittime dell’illusione di trasparenza.
Essi cioè sovrastimarono il grado in cui le sensazioni di disgusto provate erano parse evidenti agli altri e quindi finirono per sovrastimare il numero di osservatori che, nella sequenza di assaggi, avevano individuato correttamente la posizione della bevanda dal sapore sgradevole. Nei fatti, gli assaggiatori attribuivano più del doppio di correttezza ai giudizi espressi dagli osservatori.
In pratica il disgusto che gli assaggiatori temevano di aver manifestato non era così evidente come essi pensavano, e quindi non erano così trasparenti come invece a loro sembrava.



Una spirale perversa


Ancora una volta passiamo dalle ingegnose situazioni sperimentali messe a punto dai ricercatori alle possibili conseguenze nelle dinamiche delle relazioni quotidiane. Partiamo subito da una considerazione che nasce dalle esperienze di ogni giorno.
Spesso i problemi che ci affliggono hanno una strana proprietà: più ci preoccupiamo per il loro manifestarsi e più quei problemi si aggravano. Questo pare particolarmente vero quando ci impegnamo nel nascondere pensieri e sentimenti che preferiamo tenere celati e lontani dall’attenzione degli altri. Se questo è il caso, l’illusione di trasparenza, ossia la preoccupazione che gli altri siano in grado di “leggere” i nostri stati interni, ci porta a rivolgere eccessiva attenzione proprio a quei pensieri e sentimenti che vogliamo tenere nascosti.


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È come se si attivasse una spirale perversa: credere erroneamente che le nostre sensazioni interne si rendano visibili malgrado la nostra volontà ci porta a focalizzare l’attenzione proprio su queste sensazioni e di conseguenza ad amplificarne l’eventuale visibilità.
Un caso emblematico è quello della persona che prova una sensazione d’ansia quando si appresta a parlare in pubblico.
Tale sensazione per larga parte rimane un fatto privato, interno, ed è meno visibile all’esterno di quanto non pensi chi la sta sperimentando.
L’ansietà provata al momento di parlare in pubblico induce però la persona a ritenere che gli ascoltatori si accorgeranno di tale condizione, temendo che si renda visibile attraverso il rossore (o il pallore) del viso, lo sguardo sfuggente e imbarazzato, la fronte imperlata di sudore, e così via. In pratica, l’ansia di partenza si sta velocemente trasformando nella preoccupazione di manifestare l’ansia provata.
Chi avverte queste sensazioni vorrebbe parlare, come nella foto qui sopra, senza essere visto in faccia, pur sapendo che neppure questo potrebbe metterlo al riparo, se ad esempio si verificassero tremori alle mani, incertezze nella voce, ecc.
Dato che l’illusione di trasparenza ci accompagna anche in situazioni come questa, ecco che la spirale perversa (ansia provata, preoccupazione della sua visibilità, ulteriore aumento dello stato d’ansia) porta a perpetuare ed ingigantire lo stato emotivo e a renderlo effettivamente appariscente anche agli occhi di un ascoltatore distratto.
Esempi del genere possono essere moltiplicati: la stessa spirale, ad esempio, può caratterizzare anche le reazioni della persona cronicamente timida e nervosa quando deve avvicinarsi a dei potenziali partner di una relazione sentimentale.
Convincersi che la situazione d’imbarazzo sperimentata diventerà visibile alla persona desiderata non fa altro che aumentare la sensazione e le manifestazioni d’imbarazzo, provocando il fallimento di ogni tentativo d’approccio.



Attori mancati...


Rientriamo ora in laboratorio per osservare un semplice ma interessante esperimento sul riconoscimento delle espressioni facciali delle emozioni. A ciascun partecipante viene fornita una lista di sei emozioni e gli viene chiesto di manifestare una tra le sei esperienze emotive a disposizione, usando come veicolo di comunicazione unicamente l’espressione del volto.

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La prestazione del partecipante viene videoregistrata e successivamente gli viene chiesto di stimare il numero di osservatori in grado di definire correttamente l’emozione che è stata rappresentata.
Quanti saranno, ad esempio, gli osservatori che correttamente riusciranno a definire l’emozione manifestata come espressione di confusione, distinguendola da odio, preoccupazione, frustrazione, fatica o imbarazzo?
Anche in questo caso gli sperimentatori sono in grado di confrontare le stime di attribuzione corretta emesse dai partecipanti che hanno rappresentato l’emozione provata e i giudizi effettivamente prodotti dagli osservatori che hanno visionato il nastro della videoregistrazione.
L’illusione di trasparenza emerge anche in questo caso: chi tenta di veicolare con le espressioni del volto una particolare situazione emotiva è convinto di farlo con maggior chiarezza di quanto non avvenga in realtà.
Le abilità nel riconoscere espressioni emotive complesse sono meno buone di quanto si aspetterebbe chi recita l’emozione stessa.
La cosa è tanto più sorprendente tenuto conto che il soggetto che interpreta l’emozione ci mette tutto l’impegno nel tentativo di comunicarla in maniera corretta. Quali conseguenze possono prodursi se tale difficoltà di comunicazione si manifesta nella vita di relazione?



Le coppie in crisi



Proviamo a considerare due persone in un rapporto di coppia.
Le ricerche ci dicono che il grado di soddisfazione avvertito è proporzionale alla capacità che le due persone manifestano di “leggere” i comportamenti espressivi del partner.


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Possiamo anche immaginare che tale soddisfazione derivi dalla convinzione che le persone maturano di poter comunicare efficacemente al loro partner gli stati emotivi provati.
Se però le persone sovrastimano la chiarezza con cui hanno inviato certi segnali (ad esempio, espressioni del viso che comunicano indicazioni del tipo: «Quanto mi sto annoiando!», oppure: «Ho bisogno di attenzione!»), possono interpretare eventuali insuccessi da parte del partner nel comprendere il senso delle espressioni come indicazione di scarsa sensibilità, poca attenzione o addirittura ostilità.
In sostanza, esagerare la capacità di essere trasparente nella comunicazione dei propri stati emotivi interni può far maturare irrealistiche aspettative a proposito della capacità del partner di leggere con correttezza le espressioni del viso e può produrre incomprensioni.
«Era chiaro cosa volevo comunicarle, ma lei non è stata attenta o non ha voluto capire le mie intenzioni.»: conclusioni di questo tipo possono portare al disaccordo e al conflitto, soprattutto nelle coppie più sensibili all’illusione di trasparenza.
E se invece cominciassimo tutti a fare una buona volta i conti con il nostro bias egocentrico?
In fondo, basterebbe riflettere alla luce dei fatti.





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Articolo Originale di
Luciano Arcuri**



**Direttore del Dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell’Università degli studi di Padova.

Insegna Psicologia delle comunicazioni sociali ed è autore di alcuni volumi sui modelli della psicologia sociale e sui processi di comunicazione. Recentemente, per le edizioni Giunti, ha redatto un capitolo sulla psicologia della comunicazione nel Manuale di psicologia sociale curato da Giuseppe Mantovani.

I suoi ambiti di ricerca riguardano la cognizione sociale, le basi psicologiche del pregiudizio e lo studio sperimentale dei processi impliciti nel giudizio sociale.









Edited by filokalos - 20/9/2012, 18:22
 
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