Ascoltare i pensieri, sbirciare tra le pieghe del cervello: quello che la fantascienza aveva etichettato ieri come telepatia, oggi un gruppo di neuroscienziati l’ha realizzato.
Grazie a chip impiantati nella testa. Gli elettrodi, fissati in quel lobo temporale in cui i suoni vengono convogliati dal nervo uditivo e scomposti in fonemi, hanno fedelmente registrato gli impulsi elettrici generati dai neuroni impegnati ad ascoltare una serie di parole.
Con molta pazienza e l’aiuto di un computer i ricercatori dell’università californiana di Berkeley hanno poi collegato ogni gruppo di segnali emessi dai neuroni a una parola.
Fino a ricostruire, passo dopo passo, il vocabolario che il cervello usa per tradurre i suoni in concetti.
La ricerca appena pubblicata sulla rivista Plos Biology si va ad aggiungere a uno studio giapponese che, sempre analizzando gli impulsi elettrici del cervello, l’anno scorso aveva ricostruito le scene di un film che in quel momento passava davanti agli occhi di un uomo.
Matthew Nagle
E nel 2006 ad un ragazzo di 26 anni paralizzato dal collo in giù, Matthew Nagle, era stato impiantato un chip nel cervello capace di tradurre gli impulsi elettrici dei neuroni in comandi per muovere il cursore di un computer o una mano artificiale.
La lingua che le cellule del cervello usano per comunicare tra loro cominciano a essere captate e decifrate.
E questo sguardo diretto che i neuroscienziati gettano da qualche anno nel nostro organo del pensiero apre prospettive illimitate.
L’esperimento di Berkeley per esempio ha coinvolto 15 pazienti che dovevano subire un intervento al cervello a causa di una grave epilessia.
Brian Pasley
I 256 elettrodi fissati nel lobo temporale avevano il compito principale di segnalare al chirurgo il punto esatto da cui scaturiva un attacco epilettico. Ma i segnali sono stati usati anche dai neuroscienziati guidati da Brian Pasley per studiare l’elaborazione del linguaggio.
Lo stesso ricercatore ha dichiarato: «Il nostro scopo era capire come fa il cervello a comprendere le parole nonostante tutte le variazioni che il loro suono può avere, a seconda che a pronunciarle sia un uomo o una donna e che il ritmo del discorso sia lento o veloce».
Il cervello, hanno scoperto gli scienziati californiani, riesce a scomporre il suono di una parola in frammenti di decimillesimi di secondo, con frequenze che variano da 1 a 8mila hertz.
Ascoltando attentamente i segnali dei neuroni è stato possibile fotografare l’impronta lasciata nel cervello da alcuni termini comuni in inglese come jazz, cause, deep.
Da lì, i ricercatori di Berkeley sono passati alla seconda fase dello studio, quella più utile per restituire la parola a pazienti che l’hanno persa per ictus o malattie degenerative come il morbo di Lou Gehrig.
Una delle persone che in teoria potrebbero beneficiare di questi esperimenti è l’astrofisico inglese Stephen Hawking.
Stephen Hawking
Colpito da Sla (Sclerosi Laterale amiotrofica) e ormai settantenne, lo scienziato riesce a comunicare solo attraverso la contrazione di un muscolo della guancia.
Ma a Berkeley non solo è stato possibile ascoltare una parola e “fotografarne” l’impronta nel cervello.
Gli scienziati sono stati anche capaci di percorrere il sentiero opposto: partendo dalla traccia dei neuroni e trasformandola di nuovo in suono con l’aiuto di un computer.
Per attivare le scariche dei neuroni infatti, spiega Pasley: «non c’è bisogno di pronunciare la parola, basta infatti solo immaginarla».