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Neurobiologia della forza d'animo

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view post Posted on 2/8/2011, 21:26     +1   -1
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Neurobiologia della forza d'animo

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Dopo un lutto o un altro trauma emotivo,
la maggior parte delle persone riesce
a superare il dolore in tempi brevi.
Qual è l’origine di questa capacità
di resistere ai colpi della sorte?




Alcuni sostengono che la forza d'animo (scientificamente nota come resilienza psicologica allo stress) sia un evento relativamente raro, un prodotto di geni fortunati o di buoni genitori.

Da qualche anno le ricerche sul lutto e sui disastri naturali hanno scoperto invece che la resilienza è sorprendentemente comune.

L’uomo reagisce ai traumi adottando comportamenti diversi, alcuni dei quali potrebbero essere definiti narcisistici o disfunzionali.



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Eppure questi comportamenti – controintuitivi ma funzionali, come li definisce un ricercatore – risultano a conti fatti un adattamento agli eventi più stressanti della vita.

Alcuni psicologi si domandano se gli interventi per addestrare alla resilienza – programmi già avviati nelle scuole e in campo militare – saranno un vero aiuto, considerando che l’uomo ha la tendenza naturale a cavarsela da solo.

Quando capita il peggio - un lutto, un attacco terrorìstico. un'epidemia, una catastrofe naturale - proviamo un senso di shock e disorientamento.

Eppure i neuroscienziati e gli psicologi che studiano le conseguenze di questi tenibili eventi hanno imparato alcune cose sorprendenti: la maggior parte delle vittime di una tragedia si riprende presto e ne esce quasi sempre senza gravi scalfitture emotive.

La maggior parte di noi dimostra una sorprendente resilienza naturale agli eventi peggiori della vita.

Lo studio della resilienza comincia a svelare i suoi meccanismi grazie all'imaging cerebrale e ai database dei geni, che integrano i tradizionali strumenti usati dagli psicologi, i questionari sociologici. Dopo un disastro, fattori biochimici, genetici e comportamentali operano insieme per ripristinare il nostro equilibrio emotivo.

Gli scienziati cercano di capire i fondamenti della forza emotiva, una conoscenza che potrebbe insegnarci il comportamento da adottare quando il processo naturale di guarigione si inceppa.

Nel frattempo il mondo scolastico, militare e aziendale non aspetta un quadro completo dei geni, dei neurotrasmettitori e quant'altro prima di avviare programmi per vaccinarci contro gli stress più severi della vita.

In assenza di un manuale definitivo sul coraggio, è in corso un vivace dibattito: i tentativi di manipolare quella che potrebbe essere una qualità innata non rischiano di peggiorare la situazione?

Il dibattito assume una speciale urgenza oggi che l'esercito statunitense sta iniziando un gigantesco programma di addestramento per imprimere la resilienza a più di un milione di soldati e alle rispettive famiglie, uno degli interventi psicologici forse più vasti mai intrapresi da una singola istituzione.



I meccanismi della resilienza



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Sigmund Freud

Nel 1917 Freud scrisse sulla necessità di «elaborare il lutto», nel quale tratteniamo l'energia emotiva (che lui stesso aveva chiamato libido) che avevamo investito nell'«oggetto inesistente», ossia la persona scomparsa.

La concezione ottocentesca della psiche come sistema di condutture che canalizzano le forze subliminali ha prevalso fino a pochi decenni fa.

Fino a quando gli psicologi e i neurobiologi hanno cominciato a cercare spiegazioni alternative.

Gli scienziati hanno iniziato a considerare la natura della resilienza, un termine che deriva dal latino resiliens - ossia saltare indietro, rimbalzare - e che viene usato nel campo delle scienze fìsiche.

In senso psicologico, spiega Christopher M. Layne, ricercatore all'Università della California a Los Angeles, «significa che siamo capaci di riprendere una funzionalità normale in breve tempo», come una molla d'acciaio che si piega in condizioni di stress, e che poi ritorta nella condizione iniziale.

Chiaramente, nella nostra testa nessuna striscia metallica si comporta da termostato, piegandosi quando le nostre emozioni diventano calde, e innescando una cascata neurochimica che ci riporta a un punto stabilito di equilibrio emotivo.

Gli scienziati hanno scopeno che la biologia umana è più complicata di questa analogia con i metalli.

La resilienza ha inizio ad un livello primario.

Poniamo il caso che qualcuno ci molli un ceffone. L'ipotalamo - una stazione di ritrasmissione del cervello che collega il sistema nervoso e il sistema endocrino - produce un segnale di stress, il fattore di liberazione dell'ormone corticotropo, il quale origina una cascata chimica che ci dice: «sferra un pugno o scappa».

Il nostro cervello pulsa come fosse un lampeggiatore:


Lotta o scappa, lotta o scappa.



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Dopo un po' la tempesta biologica si placa.

Se siamo costantemente sono pressione per difendere il territorio, i nostri ormoni dello stress zampillano in continuazione.

Uno di questi ormoni, il cortisolo, prodotto dalle ghiandole surrenali, può danneggiare le cellule cerebrali dell'ippocampo e dell'amigdala, le regioni coinvolte nella memoria e nelle emozioni, al punto da devastarci fisicamente ed emotivamente.

Per fortuna, molti di noi hanno un alleato, la resilienza

Aiutati da particolari sostanze biochimiche protettive, gli ormoni dello stress sembrano disattivarsi più rapidamente nelle persone resilienti.

Di recente, gli scienziati hanno scoperto diversi segnali biologici, indicatori della nostra capacità di superare le avversità.



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La lista è lunga, e comprende sostanze come il DHEA (deidroepiandrosterone), che riduce gli effetti del conisolo, e il neuropeptide Y, capace, fra l'altro, di ridurre l'ansia, contrastando gli effetti del fattore di rilascio dell'ormone conicotropo secreto dall'ipotalamo.

Nel 2000, Dennis S. Chamey e altri ricercatori del Veteran Affaire Hospital affiliato alla Yale University, a West Haven, nel Connecticut, hanno scoperto che lo stress da finti interrogatori delle forze speciali statunitensi che partecipavano all'esperimento diminuiva più rapidamente nei soggetti con una concentrazione più elevata di questa sostanza nel sangue.

Nel 2006 alcuni ricercatori del Bronx Veterans Affaire Medicai Center hanno scopeno che livelli superiori di questa sostanza nei reduci di guerra indicava un rischio inferiore di disturbo da stress post-traumatico.

Molte vie biologiche - catene di proteine interattive - contribuiscono alla resilienza.



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Finora però gli scienziati hanno messo insieme solo pochi suggestivi indizi del profilo biologico dell'animo audace.

Nel maggio 2010 Eric J. Nestler del Mount Sinai Medicai Center, ha riferito con i colleghi che la proteina DeltaFosB proteggerebbe i topi, e forse anche l'uomo, dallo stress indotto da una situazione di solitudine o di minaccia.

Il DeltaFosB si comporta come un interruttore molecolare che attiva un intero complesso di geni, e le proteine che questi geni codificano. Ha registrato concentrazioni elevate nei roditori resilienti e scarse nel tessuto cerebrale post mortem dei pazienti depressi.

Un farmaco che aumenta la concentrazione di DeltaFosB potrebbe perciò proteggere contro la depressione e più in generale rinforzare la resilienza.

Eppure ci vorrà del tempo prima che una bibita contenga una sostanza per aumentare la resilienza.


Un giorno una pillola che incrementa la produzione cerebrale di DeltaFosB potrebbe diventare realtà.

Per ora le ricerche riguardano i roditori: i ricercatori indagano le complessità di una sostanza che non solo consente ai topi di resistere agli sforzi dei ricercatori di laboratorio di spaventarli, ma potrebbe anche - non senza inquietarci - svolgere un ruolo nelle sensazioni di appagamento della dipendenza da sostanze.

Una schiera di altri geni e proteine potrebbe essere implicata.
Tuttavia, come nel caso di DeltaFosB, i ricercatori devono essere cauti.



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Il gene 5-idrossitriptamina

Il gene della 5HTT (5-idrossitriptamina), un tempo considerato un «gene fondamentale della resilienza», ci mette in guardia dalle insidie di una concezione puramente genetica.

Circa dieci anni fa, diversi studi avevano mostrato che le persone portatrici della versione più lunga del gene sembravano resistere alla depressione meglio dei portatori della versione più corta; in altre parole, che fossero più resilienti.

Il gene fini sotto i riflettori nel 2006, quando un articolo sul «New York Times Magazine» segnalò l'arrivo imminente di un test basato sulla 5HTT per valutare la resilienza.

Questo ottimismo si rivelò una bolla di sapone, un déjà vu negli studi che pretendono di collegare un comportamento complesso a un singolo gene.

Due recenti sistematiche analisi panoramiche di queste ricerche hanno scoperto che le prove non confermavano un legame tra una variante del gene della 5HTT e la depressione indotta da eventi stressanti.
Un'altra cosiddetta metanalisi ha in realtà trovato una connessione. Se il gene è legato alla resilienza, si tratta probabilmente di un legame debole.
In definitiva, la psicobiologia della resilienza potrebbe aprire la via a nuovi farmaci e a metodi più precisi per valutare il nostro adattamento agli stress della vita.
Per ora, eventuali idee per capire la mente resiliente deriveranno non già dallo studio di un gene o di un recettore cellulare, bensì dall'esecuzione delle care vecchie interviste con persone travolte da una crisi personale.



Farcela, in qualche modo



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George Bonanno

Gli scienziati del comportamento hanno accumulato decenni di dati su adulti e bambini esposti a un trauma.
George Bonanno, del Teachers College alla Columbia University, ha dedicato la sua carriera di psicologo a documentare le varietà di esperienze resilienti, focalizzandosi sulle reazioni alla mone di una persona cara e a ciò che accade in situazioni di guerra, terrore o malattia.

Come egli stesso ha riscontrato, la maggior parte delle persone si adatta sorprendentemente bene ai capricci della sorte: la vita rientra nella normalità dopo pochi mesi dal trauma.

Bonanno studia dall'inizio degli anni novanta il modo in cui reagiamo emotivamente al lutto e ad altri eventi traumatici, da quando era all'Università della California a San Francisco.
All'epoca era diffusa l'idea che la perdita di un caro amico o di un parente lasciasse indelebili cicatrici emotive, e che l'elaborazione freudiana del lutto o una simile panacea fossero necessarie affinché la persona colpita riprendesse una vita regolare.

Bonanno e colleghi hanno affrontato il compito senza pregiudizi. Eppure, durante gli esperimenti, non hanno trovato traccia di ferite alla psiche, prospettando la possibilità che la resilienza psicologica prevalga, che non sia un evento raro per individui baciati da geni propizi o da genitori dotati.

Questa consapevolezza ha sollevato la preoccupante possibilità che versioni più recenti di elaborazione del lutto facciano più danno che altro.

Come esempio delle sue ricerche, Bonanno e il collega Dacher Keltner hanno analizzato le espressioni facciali di persone che avevano perso di recente una persona cara.

I filmati non recavano indizi di alcun dolore permanente da estirpare.



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Come era prevedibile, gli spezzoni rivelavano tristezza, ma anche rabbia e felicità.

Di tanto in tanto l'espressione di una persona afflitta dal dolore si trasformava: dall'abbattimento alla risata, e viceversa.

Erano autentiche le risate fragorose, si domandavano i ricercatori?

Proiettarono i video al rallentatore per osservare la contrazione dei muscoli orbicolari dell'occhio, movimenti conosciuti come espressioni di Duchenne, le quali confermano che le espressioni del riso sono davvero tali.

A quanto risultava, le persone in lutto manifestavano un sentimento vero.

La stessa oscillazione tra tristezza e allegria si è ripetuta nel corso degli studi.

Che significa tutto questo?

Bonanno suppone che la melanconia ci aiuti a guarire dopo una grave perdita, ma un dolore implacabile, come la depressione clinica, è troppo gravoso da sopportare, annientando la persona colpita dal lutto.



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I circuiti del nostro cervello impediscono perciò che la maggior parte di noi rimanga bloccata in uno stato psicologico inconsolabile.

Se le nostre emozioni diventano troppo calde o troppo fredde, ecco che una sorta di sensore interno - che potremmo chiamare con un neologismo «resilienstato» - ci riporta a uno stato di equilibrio.

Con le sue ricerche, Bonanno ha spaziato oltre il lutto.

Prima all'Università Cattolica e poi alla Columbia, ha intervistato i sopravvissuti a violenze sessuali, i newyorkesi che hanno vissuto gli attacchi dell'11 settembre e gli abitanti di Hong Kong sopravvissuti all'epidemia di SARS.

Ovunque andasse, la storia si ripeteva: «Buona parte delle persone dava l'impressione di reagire bene».

Ne è emersa una struttura familiare. Dopo una morte, una malattia o un disastro, da un terzo a due terzi dei sopravvissuti manifestava pochi sintomi che meritavano di essere classificati come trauma, tra cui problemi di sonno, ipervigilanza o flashback.

A sei mesi dagli eventi il numero di persone che manifestava ancora i sintomi era sceso il più delle volte sono al 10%.

E allora, se la maggior parte di queste persone non si confrontava con un dolore durevole, quali erano i loro sentimenti? Erano forse uscite illese? Difficile a dirsi.



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L'introduzione, nel 1980, del disturbo post-traumatico da stress nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ha ristretto la prospettiva degli psicologi.

La cornice stabilita dal manuale ha spinto i ricercatori a studiare solo i gruppi che esaudivano la classificazione stereotipata di disturbo post-traumatico da stress.

La nuova definizione di trauma implicava che i pazienti che manifestavano i sintomi dello stress fossero inclusi a forza in questo contenitore diagnostico, anche se alla fine riuscivano a cavarsela.

Bonanno ha cominciato a indagare i sentimenti delle persone che non avevano cercato aiuti psicologici.

Nelle ricerche sociologiche, quando compilano i questionari, i soggetti hanno ricordi distorti degli eventi passati.
Quando il loro mondo sprofonda, capita che dipingano le cose più nere della realtà o che le ricordino catastrofiche.

Allora Bonanno ha cominciato a eseguire i cosiddetti studi di prospettiva, in cui seguiva un gruppo di individui anziani prima di una morte... :paula:



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Un grafico prodotto dalla tecnica statistica
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Una tecnica che consentiva di eliminare quella che gli psicologi definiscono deformazione (o bias) del ricordo.

Ha inoltre usato una sofisticata tecnica statistica - la latent growth mixture modeling - che gli ha permesso di delineare con maggiore precisione i tipi di reazione specifici vissuti dalle persone successivamente al trauma.

Simili ai precedenti studi sul riso, questi sguardi più incisivi al processo del lutto coglievano un'ampia gamma di risposte che non si inquadravano nelle categorie usate per indicare un adattamento fisiologico.

Questa confusione ha indotto Bonanno a definire queste risposte meno classiche con un'espressione traducibile come «superamento controintuitivo».

Alcune persone adottavano il cosiddetto self-enhancing bias, la tendenza ad attribuirsi il merito personale, una percezione esagerata di sè stessi e delle proprie azioni, che in altre circostanze avrebbe sfiorato il narcisismo.

Nel caso della persona in luno. queste lievi distorsioni potrebbero avere avuto l'utilità di evitare l'elucubrazione di pensieri del tipo «avrei potuto fare qualcosa per evitare che ciò accadesse?».

L'accrescimento dell'Io non era l'unica strategia.
Alcune persone avevano represso i pensieri e le emozioni negative: altre si erano convinte di riuscire a gestire qualunque situazione negativa.
Altre ancora lo fecero ridendo e sorridendo, per quanto molti psicologi la considererebbero una forma patologica di negazione.



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Un'immagine delle devastazioni provocate dall'uragano Katrina ...

Bonanno ha scoperto che il superamento controintuitivo era utile non solo alle persone in lutto, ma anche ai civili bosniaci di Sarajevo nei momenti successivi al conflitto balcanico e ai testimoni dell'attacco alle Torri Gemelle.
Le persone in questione erano simili a Fred Johnson, un sopravvissuto all'uragano Katrina.
Johnson, un uomo di 57 anni che risiede da sempre a New Orleans, ha reagito a Katrina unendosi al personale di soccorso nel Superdome.
Le code dallo stadio agli autobus che lasciavano la città erano uno spettacolo inquietante.
Alcuni genitori erano cosi affranti che cercavano di porgere i figli piccoli ai soccorritori: altri avevano perso il controllo di sé.
Inorridito, Johnson andò quasi fuori di senno.
Si allontanò dall'ingresso della gigantesca struttura e scoppiò in lacrime. La situazione era troppo gravosa da sopportare.
Poi, qualche minuto dopo, smise di piangere: era entrato in funzione il suo «regolatore», come lo definisce lui stesso.
E aggiunge: «Quando vengo sopraffatto. credo di seguire un processo di questo tipo: ci piango su. mi asciugo le lacrime e poi mi rimetto al lavoro, e non continuo a crogiolarmi nel pianto. Credo sia il mio regolatore. Cosi conservo il mio equilibrio».
Gli studi di Bonanno sono stati apprezzati, ma non tutti sono convinti che la resilienza sia innata come i suoi studi fanno intendere.
Alcuni colleghi sostengono che la sua definizione del termine sia troppo generica. Bonanno riconosce che le avversità nell'infanzia possono generare conseguenze più durevoli delle emozioni transitorie che scaturiscono dopo un lutto in famiglia o un disastro naturale.
Eppure, le reazioni della maggior pane degli adulti - che si trani della perdita del lavoro o di un'inondazione - rivelano che la capacità di assorbimento rimane la regola per l'intera vita adulta.



Realizza te stesso

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Se la resilienza rimane la condizione normale per quasi ognuno di noi.
Che cosa succede al 10% di persone che, in presenza di un trauma, non assorbirà l'uno e sarà preda di ansia e depressione?
È possibile insegnare loro il coraggio?
Una risposta definitiva non c'è, ma le prove di cui disponiamo invitano alla cautela.

Gli psicologi e i soccorritori che arrivano sul luogo di un disastro hanno spesso applicato la tecnica del critical incident stress debriefing (il cosiddetto CISD), o debriefing dopo un incidente.

Richiede che gli individui raccontino le proprie esperienze per spazzare via. come in una catarsi, i sintomi incipienti causati dal trauma.

Diversi studi svolti per oltre 15 anni hanno dimostrato che la tecnica non cosi è efficace, e che può addirittura causare danni.

Talvolta nelle sessioni di gruppo una persona può trasmettere il panico alle altre, peggiorando la situazione di buona pane dei panecipanti. Dopo lo tsunami del 2004 nell'Oceano Indiano, l'Organizzazione mondiale della Sanità ha messo in guardia contro i debriefing perché indurrebbero alcune persone a provare un turbamento maggiore.

L'esperienza con i debriefing solleva dubbi sui più recenti tentativi di insegnare la resilienza facendo appello a tecniche ricavate dagli strumenti della psicologia positiva.



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Martin Seligman

Il movimento della psicologia positiva è nato formalmente nel 1998, quando, al meeting annuale della American Psychological Association, Martin Seligman, docente all'Università della Pennsylvania, dichiarò che gli psicologi non avrebbero dovuto occuparsi esclusivamente della malattia mentale.

Seligman è approdato alla psicologia positiva dopo avere scoperto che dopo l'esposizione a shock elettrici i cani entravano in uno stato di completa sottomissione, che egli defini «impotenza appresa».

Seligman trasse ispirazione da quella ricerca per esplorare la possibilità di interventi clinici che realizzassero l'esano contrario: incoraggiare l'ottimismo, il benessere e la resilienza dei pazienti.

Seligman ha avuto un ruolo fondamentale nel varare una ventina d'anni fa il Penn Resilience Program, prezioso in pascolare per gli studenti delle scuole superiori.

Attingendo a varie teorie sul modo per combattere la depressione, l'addestramento prevede tecniche come il reframing (ricontestualizzazione) mentale, usato dagli psicologi cognitivo-comportamentali per rivedere i propri pensieri sotto una luce più positiva.

Valutazioni del programma tramite almeno 21 studi controllati con 2400 bambini di età compresa tra gli 8 e i 15 anni hanno mostrato l'efficacia nel prevenire l'ansia e la depressione.

Oggi l'esercito statunitense applica metodi simili a più di un milione di soldati e alle rispettive famiglie, in quello che viene definito il «più grande intervento psicologico intenzionale» mai tentato.

Il programma, del costo di 125 milioni di dollari e della durata prevista di cinque anni, conta già 800.000 soldati che lavorano con uno «strumento di valutazione globale» online - un test psicologico che misura, tra gli altri, il benessere emotivo e spirituale - e che seguono corsi per accrescere la «fitness» in vari aspetti della resilienza emotiva.



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Ogni mese 150 soldati vengono all'Università della Pennsylvania per prepararsi a insegnare la resilienza al personale militare. Infine i dati raccolti confluiranno in un database di dati statistici psicologici e sanitari, cui i ricercatori in campo civile attingeranno per gli studi sulla resilienza.
Seligman conferma:«Mai in psicologia la scienza aveva raggiunto una portata cosi vasta».

Il programma è partito a spron battuto: il Capo di Stato Maggiore dell'esercito William Casey era impaziente di aiutare i soldati impiegati in più missioni.

Nessuno studio pilota ha cercato di indagare se un programma dimostratosi prezioso negli adolescenti fosse trasferibile a un soldato alla terza missione in Iraq.

Con l'avanzare del programma, i ricercatori misureranno se i soldati sopportano meglio lo stress della vita militare. «Anche se i ancora in fase di costruzione, lo valutiamo rigorosamente come se fosse già costruito», osserva Seligman.

Bonanno, fra gli altri, ha sottolinealo la mancanza di prove di efficacia del programma, e alla luce della storia altalenante degli interventi precedenti si domanda se esso non provochi più danni che benefici.



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Il capitano William P. Nash

Egli ha collaborato a uno studio che ha seguito per 11 anni un gruppo di 160.000 soldati per tutta la durata del servizio, metà dei quali erano stati impiegati almeno una volta in Iraq o in Afghanistan.

Circa l'85% dei reduci furono valutati resilienti, a giudicare dall'assenza di sintomi traumatici, e solo dal 4 al 6% ha ricevuto una diagnosi di disturbo post-traumatico da stress.

Bonanno si è chiesto: «Se la maggior parte delle persone è resiliente, come pare in tutti gli studi che abbiamo svolto, che cosa succede se sottoponiamo quegli stessi individui a un addestramento che trasmette lo stress?
Diventeranno meno resilienti?
È una domanda a cui, credo, sia imperativo dare una risposta»
.


Non tutto il mondo militare ha sposato l'addestramento universale alla resilienza.

William P. Nash, un medico in precedenza incaricato di supervisionare i programmi di valutazione dello stress fra i Marines statunitensi, sostiene che siano scarse le prove di un effetto preventivo dell'addestramento alla resilienza.



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E propone il paragone tra soldati e giocatori di football americano.

A prescindere da quanto i giocatori si allenano durante la settimana, la domenica rimarranno contusi e ammaccati giacché, come spiega Nash: «Non potremo mai impedire che gli eventi negativi accadano. E non potremo impedire che le persone subiscano un danno da stress».

È possibile fare qualcosa per aumentare la capacità individuale di affrontare le avversità?

Armare le persone preventivamente potrebbe funzionare, o magari no.

Sofisticate terapie farmacologiche sono ancora lontane.

Per portare un aiuto immediato dopo un disastro, la maggior pane dei ricercatori esperti - psicologi e altri professionisti sanitari del centro nazionale per lo studio del PTSD (disturbo post-traumatico da stress) - hanno sviluppato quello che potremmo chiamare un «intervento dietetico», una strategia che rinuncia a calcare troppo la mano sull'introspezione.




Il pronto soccorso psicologico - il suo nome formale - riconosce che molte persone se la cavano bene da sole, e si concentra sugli aspetti materiali.

Il cibo e un riparo hanno la precedenza, ma le vittime vengono anche a conoscenza di varie forme di aiuto, nel caso servissero.

Dopo l'11 settembre, alcuni testimoni dell'attentato pensavano che l'ansia e la depressione sarebbero comparse tre mesi dopo la calamità, e dunque ignorarono i farmaci e l'assistenza che possono aiutare gli individui che lamentano più di un sintomo passeggero.

Patricia Watson, uno degli ideatori del pronto soccorso psicologico, ha spiegato: «È risultato che le persone hanno sofferto più a lungo del dovuto perché pensavano che lutto ciò fosse normale».

Nel caso di vittime conclamate di disturbo post-traumatico da stress, hanno avuio un certo successo diversi psicofarmaci, conte pure la terapia cognitivo-comporta-mentale che espone un paziente alla fonte dello stress.

La nuova scienza della resilienza dimostra che un'unica taglia non si adatta a ciascuno di noi per venire a patti con improvvisi eventi infausti.

A volte il peggio succede davvero, ma la nostra innata capacità di assorbimento implica che di solito le cose evolvono per il meglio.







-Amplificatori della Resilienza-



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Smorzare il sistema d'allarme del cervello



Di fronte al pericolo, il cervello avvia una cascata chimica che ci prepara ad attaccare oppure a fuggire.


A sua volta, una serie di altre sostanze prodotte dal cervello può smorzare questa risposta, promuovendo cosi la resilienza allo stress.


Un particolare ciclo chimico inizia quando l'ipotalamo produce il fattore di rilascio dell'ormone corticotropo, che induce l'ipofisi a secernere l'ormone adrenocorticotropo (ACTH) nel sangue. che induce a sua volta le ghiandole surrenali a rilasciare cortisolo.


Quest'ultimo aumenta la capacità deirorganismo di rispondere a situazioni impegnative, anche se una quantità eccessiva può creare nel tempo un danno duraturo Affinché rimanga tutto sotto controllo, una serie di sostanze smorza la risposta allo stress.


I farmaci o la psicoterapia potrebbero stimolare la produzione di questi "stressbuster", o acchiappastress.




Articolo Originale
di
Gary Stix
 
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