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Olga Sviblova, La Zarina della cultura russa

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view post Posted on 8/10/2009, 20:00     +1   -1
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Olga Sviblova



La Zarina della cultura russa


Trent'anni fa faceva la spazzina.
Oggi, potentissima e sofisticata,
Olga detta i canoni stilistici
della nuova Russia...



Quando si dice che in Russia a comandare siano le donne, e che sia il gentil sesso a far andare avanti politica, economia, finanza e persino la cultura, si pensa a donne come Olga Sviblova.

Non una donna, ma un carro armato.
Fascinosa, intelligente, colta, arguta, ambiziosa e pronta a tutto.

Olga Sviblova nasce a Mosca al tempo di Leonid Breznev, e cresce nelle aule di una di quelle ottime scuole sovietiche oggi andate perdute, dove gli insegnanti creavano persone, accompagnavano gli alunni in vacanza e nei musei, e qualche volta passavano di nascosto persino "samizdat" (i libri proibiti dal regime ).



Come ricorda la stessa Olga:

« Ebbi la fortuna di studiare psicologia, una facoltà che, a metà tra scienza e studi umanistici, godeva di grandissima libertà: non era ideologizzata quanto letteratura e storia, e i professori ci insegnavano una cosa a quel tempo rarissima: a pensare con la nostra testa.
Perché se sotto Breznev la macchina dell'ideologia statale era già stanca, disciplina e controllo rimanevano comunque fortissimi».


A 17 anni la Sviblova sposa un poeta, Alexei Parshikov, e attorno al tavolo della loro cucina vanno ritrovandosi quegli intellettuali barbuti che popolavano l'underground sovietico.

Olga Sviblova lavorava come spazzina: «I sei anni più felici della mia vita. Non avevo nessuna responsabilità, tempo libero illimitato e stavo all'aria aperta rutto il giorno. Pensieri come carriera e guadagno facevano ridere: vigeva il sistema sovietico ed era ridicolo pensare di metterlo in discussione. Vivevamo per la nostra sfera privata, isolandoci dal resto ».






È un fiume in piena Olga Sviblova, seduta in poltrona davanti alla scrivania ingombra di cataloghi in tutte le lingue.
Fa 50 cose contemporaneamente, sul tavolo ha tre telefonini e beve una tazza di tè.

«Allora c'era molto tempo per parlare, per leggere e per visitare gli studi degli artisti. L'informazione circolava per canali ristretti che dovevi conoscere».

Poi le cose cambiarono: lentamente, senza che se ne accorgessero gli stessi sovietici, gli analisti politici e gli ambasciatori stranieri di stanza a Mosca. La Sviblova cominciò a organizzare mostre in appartamenti privati, le "kvartirnye vystavki'" visto che in pubblico i lavori di molti artisti erano proibiti.


Ma non lo considerava ancora un vero lavoro.





Venne il '91 e il World Economic Forum di Davos invitò questa giovane donna paladina degli artisti: «Avevo una grande paura, perché sapevo a malapena chi fosse Gorbaciov e per me Davos voleva dire soltanto Thomas Mann. Ma in quella conferenza cominciai a rendermi conto di altri funzioni dell'arte contemporanea, più commerciali, di cui noi, dalle nostre torri d'avorio sovietiche, eravamo completamente all'oscuro».



Le chiesero cosa ci si potesse aspettare dalla Russia, e lei rispose: «Un putsch».
«La sala fu scossa da un brivido e mi chiesi come avevo potuto, io, annunciare una cosa simile a un tale auditorio».

Le domandarono quando, e lei rispose: «Prima dell'autunno».
Quindi le commissionarono un documentario su questa sua Russia, e la Sviblova le scene del putsch non le girò con i carri armati di cartapesta. «Non ero un'indovina: chi sa guardare l'arte certe cose le capisce. L'arte è un telescopio formidabile. E nell'arte russa del '91 c'era scritto: putsch, putsch, putsch».



Oggi la Sviblova è la fondatrice e direttrice del Museo della Casa della Fotografia di Mosca, il fiore all'occhiello di una città dove le istituzioni pubbliche dedicate all'arte contemporanea hanno sempre latitato: «Per funzionare l'arte aveva bisogno di mercato, di istituzioni e di borse di studio. Ma soprattutto bisognava creare un pubblico».


Ecco quindi lo spunto per la Biennale della fotografia, che ha chiuso la sua decima edizione con un record di 872 mila visitatori:
«Uno dei ruoli principali della fotografia è sfatare gli stereotipi, demolire i miti consolidatisi in diverse epoche: in era sovietica quello che eravamo noi i più felici, in tempo di pe-restroika che eravamo noi i più infelici, e in quello recente, che c'è qualcosa di anomalo e di eccezionale nei russi. Non c'è miglior modo per far crollare il muro di Berlino che conoscersi meglio l'un l'altro».



Cammina per il corridoio diritta come un missile, e al ticchettio dei suoi tacchi una schiera di assistenti furibondi per il ritardo, si affaccia sul corridoio. Dorme pochissimo, mangia ancora meno, fuma una sigaretta dopo l'altra, dà appuntamenti alle tre di notte o di domenica, dorme tutta la mattina e lavora tutta la notte. Riceve dieci telefonate all'ora, risponde in russo, francese e inglese, ogni volta definisce l'interlocutore "amore", "sole", "figlio mio", promette a tutti di richiamarli, ma non lo fa mai.



Tutto si arresta soltanto per suo marito, un francese imprenditore e collezionista d'arte conosciuto negli anni '90.
Olga Sviblova è definitivamente passata alla fama internazionale dopo aver curato, per due edizioni di seguito, il padiglione russo della Biennale di Venezia.



Un'impresa quasi titanica, visto che in sei mesi ha trovato sponsorsper quasi un milione di euro, assicurato il sostegno di Novatek e della Mikhail Prokhorov Foundation, restaurato il padiglione russo semi-abbandonato e creato uno degli insiemi più interessanti e vivaci della manifestazione.



Quest'anno, promette, non sarà da meno: «Il titolo è Vittoria sul Futuro, perché in questo nostro secolo la società è paralizzata non tanto dalla crisi economica, quanto dalla paura di fronte al futuro».

Intanto in Russia Olga Sviblova campeggia sulle pagine dedicate alla vita dei vip di riviste come "Vogue" o "Elle", e il suo stile fa tendenza.




Sempre vestita di nero, gonna o vestito, le gambe magrissime fasciate da calze nere o grigie, scarpe di vernice dai tacchi altìssimi, e gli stessi gioielli modernissimi indossati in ogni occasione: una collana con bocce di vetro trasparente infilate su una cordicella nera e al dito un grande anello di plastica riempito di liquido bianco. Uno sole sofisticatissimo da femme fatale, ambiziosa e infaticabile, da vera zarina della cultura. Impossibile immaginarla, 30 anni fa, spazzina dei cortili di Mosca.



Articolo Originale di
Margherita Belgiojoso
 
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