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Ambienti virtuali, emozioni reali

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view post Posted on 6/4/2011, 12:02     +1   -1
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Magazziniere delle Muse

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Ambienti virtuali, emozioni reali

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Se all’inizio i media avevano escluso
il corpo dalla comunicazione,
oggi – grazie alla realtà virtuale –
lo hanno di nuovo messo
al centro del processo interattivo.
La realtà virtuale può essere considerata
un’interfaccia “esperienziale”, in cui
la componente percettiva
(visiva, tattile, cinestetica)
si fonde con l’interattività,
generando quello che viene definito
“senso di presenza”: la sensazione
di essere “dentro” l’ambiente virtuale.



Disincarnazione e reincarnazione


Ciascuno di noi comunica.
Non a caso la psicologia considera la comunicazione una dimensione costitutiva del soggetto che è luogo di fondazione del nostro rapporto con gli altri: ogni soggetto non sceglie se essere comunicante o meno, ma può scegliere se e in che modo comunicare.
In quest’ottica che cosa sono i media? :eh?:



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Da un punto di vista psicologico possiamo considerare i media come dei dispositivi di mediazione: da una parte facilitano il processo di comunicazione superando i vincoli imposti dal faccia-a-faccia; dall’altra, ponendosi “in mezzo” tra i soggetti interagenti, sostituiscono l’esperienza diretta dell’altro con una percezione mediata. La principale conseguenza è la scomparsa della fisicità del corpo dall’interazione: l’introduzione di un medium rende il soggetto “disincarnato”.
Fin dall’inizio lo sviluppo dei media ha cercato di superare questo limite.
Un passaggio importante in questo processo è l’introduzione dei “nuovi media”: l’insieme dei mezzi di comunicazione che utilizzano il linguaggio digitale nella codifica delle informazioni.
La digitalizzazione, resa possibile dall’avvento dei microprocessori, offre numerosi vantaggi: è più facile memorizzare e modificare le informazioni e riduce la possibilità di errori di trasmissione. Inoltre, tale processo rende simili, dal punto di vista dell’elaborazione, informazioni provenienti da canali comunicativi differenti, visivi, sonori, tattili, ecc., facilitandone l’integrazione (multimedialità).
Grazie alla multimedialità diventa possibile cercare di rendere l’interazione con il medium il più possibile simile a quella che ciascuno di noi ha all’interno di un ambiente reale. Per farlo i progettisti hanno utilizzato due strategie.
Da una parte utilizzando sistemi simbolici che riproducono situazioni e contesti reali: per esempio, il cestino e le cartelle di Windows.
Dall’altra cercando di reintrodurre nell’interazione la corporeità e le regole che la caratterizzano: per esempio, l’uso di un mouse per interagire con i file.
Il risultato di questo processo, che ha coinvolto ambiti molto differenti che spaziano dalle scienze cognitive, alla psicologia dello sviluppo, alla linguistica e alla fenomenologia, ha portato alla nascita della realtà virtuale.
Infatti, la principale caratteristica della realtà virtuale come interfaccia è il progressivo coinvolgimento dei diversi canali sensoriali all’interno di un’esperienza comunicativa sempre più intensa e globale. In pratica, con la realtà virtuale il corpo diventa la principale interfaccia con
cui manipolare l’informazione disponibile.



La tecnologia della realtà virtuale


Da un punto di vista puramente tecnologico la realtà virtuale è costituita da una serie di strumenti in grado di acquisire informazioni sulle azioni del soggetto (“strumenti di input”) che vengono integrate e aggiornate in tempo reale dal computer in modo da costruire un mondo tridimensionale dinamico.
Le informazioni visive, sonore e in alcuni casi anche tattili e olfattive relative a tale mondo vengono poi restituite al soggetto attraverso particolari media (“strumenti di output”).
In base agli strumenti di output utilizzati è possibile distinguere fra tre tipi di realtà virtuale: quella immersiva, quella non immersiva e quella semi-immersiva.



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La realtà virtuale è immersiva (Figura 1) quando è in grado di creare un senso di assorbimento e isolamento sensoriale nell’ambiente tridimensionale generato dal computer.

Questa sensazione viene generata mediante:
– un dispositivo di visualizzazione, normalmente un casco (“head mounted display”), capace sia di visualizzare in due o tre dimensioni gli ambienti generati dal computer, sia di isolare l’utente dall’ambiente esterno. Per mezzo della vista, normalmente percepiamo tre dimensioni: orizzontale, verticale e profondità. I caschi stereoscopici consentono di percepire tutte e tre queste dimensioni, in particolare la profondità dello spazio, il volume degli oggetti, la distanza in profondità degli oggetti fra di loro e rispetto all’osservatore;

– uno o più sensori di posizione (“tracker”) che rilevano i movimenti dell’utente e li trasmettono al computer, in modo che questo possa modificare l’immagine tridimensionale in base al punto di vista dell’utente. Normalmente i sensori di posizione sono inseriti nel casco e rilevano i movimenti della testa. Tuttavia diversi sistemi di realtà virtuale prevedono l’utilizzo di un guanto o di una tuta dotati di sensori di posizione.



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La realtà virtuale non immersiva (Figura 2) sostituisce il casco con un normale monitor o con un videoproiettore.
In questo caso l’impressione dell’utente è quella di vedere il mondo tridimensionale creato dal computer attraverso una sorta di “finestra”.

In generale i sistemi di realtà virtuale non immersiva consentono la visione stereoscopica solo utilizzando degli occhiali speciali e riproducono graficamente solo indici di profondità monoculari quali grandezza relativa, gradiente di tessitura o parallasse di movimento.

I più semplici occhiali stereoscopici hanno lenti di colore diverso - rosse e verdi, o rosse e blu - che forniscono all’osservatore, due immagini leggermente diverse per ciascun occhio. Più recentemente, sono stati introdotti degli occhiali che utilizzano otturatori a cristalli liquidi
o polarizzazione della luce per ottenere immagini diverse per l’occhio destro e per quello sinistro.



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La realtà virtuale semi-immersiva (Figura 3) è una piccola stanza in cui le pareti, il soffitto e il pavimento vengono sostituiti da schermi retroproiettati.

Nella stanza i movimenti dell’utente vengono rilevati da appositi sensori consentendo di aggiornare l’ambiente tridimensionale visualizzato sulle pareti. Viene spesso chiamata anche CAVE – Cave Audio Visual Environment – dal nome della prima installazione di questo tipo realizzata agli inizi degli anni Novanta dall’Università dell’Illinois a Chicago.



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Le diverse forme di realtà virtuale possono essere utilizzate anche in maniera condivisa (Figura 4) come strumento avanzato di comunicazione.

I più recenti esempi di realtà virtuale condivisa – per esempio Second Life e There – sono dei veri e propri mondi virtuali che consentono agli utilizzatori di condividere delle esperienze stimolanti senza obbligarli a risolvere
problemi o semplicemente a dover pensare a come sopravvivere.

All’interno di questi ambienti l’utente ha la possibilità di scegliere come essere (aspetto fisico, abilità e competenze), dove vivere (può costruire case, giardini e arredarle liberamente), cosa fare (all’interno degli ambienti ci sono dei parchi divertimenti in cui
il soggetto può sperimentare singolarmente o in gruppo esperienze nuove e stimolanti) e con chi interagire (questi ambienti supportano le diverse forme di comunicazione mediata da computer).



La realtà virtuale come esperienza


Tuttavia, analizzare la realtà virtuale esclusivamente dal punto di vista della tecnologia non consente di comprendere pienamente le opportunità che può offrire.
A differenza delle altre forme di comunicazione mediata, nella realtà virtuale avviene il passaggio dalla sensazione di “star percependo un’informazione” alla sensazione di “essere in un luogo di informazione”.


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La risposta cognitiva ed emozionale che ne deriva è in grado di far passare l’utente da osservatore di un’esperienza a protagonista della stessa esperienza.

Infatti, gli utenti di un sistema di realtà virtuale non sono più passivi ricettori di informazioni, ma compiono scelte deliberate all’interno del medium comunicativo in modo da definire la propria esperienza soggettiva.

In quest’ottica, la realtà virtuale può essere considerata un’interfaccia “esperienziale”, in cui la componente percettiva (visiva, tattile, cinestetica) si fonde con l’interattività.

Infatti, l’interazione tra questi due aspetti genera quello che viene definito “senso di presenza”: la sensazione di essere “dentro” l’ambiente virtuale.

L’idea di “presenza” nasce in contrapposizione alla mediazione della tecnologia (l’illusione percettiva di non mediazione): lo stato psicologico nel quale il soggetto, nonostante l’esperienza provata sia tecnologicamente mediata, non è consapevole del tutto o in parte del ruolo svolto dalla tecnologia nel permettere tale percezione.

Ciò significa che, meno il soggetto è consapevole della mediazione tecnologica, maggiore è il livello di presenza.

In realtà, i risultati degli studi delle scienze cognitive sottolineano come la presenza non sia un fenomeno che riguarda solo la realtà virtuale ma un processo psicologico fondamentale per il coordinamento dell’azione e lo sviluppo del Sé. In quest’ottica è possibile descrivere la “presenza” come un meccanismo selettivo e adattivo che permette al Sé di controllare il livello di attuazione (“enactment”) delle proprie intenzioni nell’azione attraverso un’analisi inconsapevole ma continua del flusso percettivo.

In pratica, più l’organismo rie sce ad attuare le proprie intenzioni attraverso la propria azione nell’ambiente, maggiore è il livello di presenza sperimentato.



Le applicazioni della realtà virtuale


Le caratteristiche descritte permettono alla realtà virtuale di essere utilizzata con successo in numerosi ambiti che variano dalla formazione alla terapia.
Nell’ambito della formazione la principale opportunità offerta dalla realtà virtuale è la possibilità di partecipare attivamente alla creazione e allo sviluppo della propria conoscenza: l’apprendimento è legato allo “scoprire” e al “fare” in prima persona.



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Per esempio, la società americana Sandia ha sviluppato, in collaborazione con la DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency: il gruppo di ricerca finanziato dal Ministero della difesa americano), un sistema di realtà virtuale per addestrare i propri operatori sanitari utilizzati per il primo intervento sul campo di battaglia (Figura 5).

Rispetto ad una tradizionale lezione in aula i vantaggi sono due.

In primo luogo la realtà virtuale consente all’operatore di interagire con i pazienti e con i diversi strumenti richiesti.

Ciò consente di imparare attraverso l’esperienza diretta e in tempo reale dai risultati delle proprie azioni: se l’intervento è sbagliato il paziente virtuale simula il dolore o il pianto.

In secondo luogo è possibile riprodurre le caratteristiche ambientali della situazione – il rumore delle bombe e delle granate, le urla dei feriti, ecc. – che producono nell’operatore una risposta emotiva simile a quella che proverebbe su un campo di battaglia.

Questo permette non solo di imparare una tecnica, ma anche di sperimentare emozioni e di imparare a controllarle grazie alla supervisione di uno psicologo è infatti decisivo che l’operatore, perché possa intervenire con successo, riesca a gestire il panico e la tensione presenti su un campo di battaglia.

Questa componente esperienziale della realtà virtuale viene utilizzata anche nel trattamento di diversi disturbi psicologici.

In particolare è stata utilizzata all’interno del progetto di ricerca europeo VEPSY Updated per combattere le fobie,ossia le paure irragionevoli di un determinato oggetto, luogo o situazione: la paura di volare, dell’altezza, dei ragni, ecc.



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I soggetti fobici, come è noto, pur essendo spesso perfettamente consapevoli dell’irrazionalità delle proprie paure, sperimentano un disagio molto profondo che li porta ad evitare oggetti o situazioni potenzialmente ansiogeni.

Il modo migliore per combattere queste paure è l’esposizione controllata del soggetto agli stimoli scatenanti e la generazione di risposte antagoniste rispetto a quelle disadattive.
In pratica è possibile densensibilizzare un soggetto con la paura di volare abituandolo progressivamente alle emozioni che prova salendo sull’aereo e durante la fase di decollo.

Quando, come in questo caso, l’esposizione diretta (in vivo) non è possibile, l’efficacia della terapia dipende dalla capacità del paziente di produrre le immagini mentali che riproducano le situazioni ansiogene.
Ma non tutti i soggetti riescono ad immaginare ciò di cui hanno paura.

Per questo all’interno del progetto VEPSY, il gruppo di ricerca della Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano, in collaborazione con la California School of Professional Psychology e l’Università di Quebec, ha realizzato una serie di contesti e situazioni virtuali da utilizzare per la terapia.

Per esempio, i pazienti con disturbi di panico sperimentano prima l’entrata in un ascensore, per poi salire su una metropolitana affollata e camminare in una piazza piena di gente.
I pazienti non immaginano le diverse situazioni ma le “vivono”, interagendo all’interno degli ambienti virtuali.
Un ulteriore vantaggio è la flessibilità della realtà virtuale. :ok:

L’ambiente artificiale può essere adattato in tempo reale alle necessità di ogni paziente e/o alle strategie del terapeuta: per esempio l’ascensore o il vagone della metropolitana possono essere vuoti o pieni di persone, a seconda della fase della terapia e delle risposte del paziente.
Se il paziente ha problemi ad entrare nell’ascensore pieno di gente il terapeuta può decidere di iniziare la seduta da un ascensore vuoto e
progressivamente aggiungere nuove persone appena il paziente si adatta alla situazione.

Se invece il paziente non ha problemi ad affrontare la situazione può passare ad uno scenario più complesso, come la metropolitana.



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Il protocollo basato sulla realtà virtuale è stato testato su 54 pazienti in uno studio clinico controllato all’interno del progetto MIUR FIRB NeuroTiv.
Nello studio il trattamento con realtà virtuale è stato in grado di ottenere gli stessi risultati di una terapia tradizionale di tipo cognitivo-comportamentale in un numero minore di sessioni: 8 contro 12. Inoltre l’efficacia del trattamento si è mantenuta nei follow-up a 3, 6 e 12 mesi.



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Lo Z800 3D Visor

Fino ad oggi il principale problema per l’uso in psicologia della realtà virtuale erano i costi.

Oggi però, grazie al software open-source sviluppato dal progetto Neurovr 2.0 e alla riduzione dei costi della tecnologia, è possibile avere un sistema di realtà virtuale a costi molto contenuti.



Per esempio, un casco immersivo tridimensionale dotato di sensore di posizione, meglio noto come Z800 3D Visor che in passato poteva costare qualche decina di migliaia di euro, oggi può essere acquistato a meno di 1000 euro.

E la maggior parte dei personal computer in grado di funzionare con i videogiochi di ultima generazione non ha problemi con gli ambienti virtuali utilizzati in ambito clinico e formativo.

In conclusione, oggi il computer è già parte integrante dell’attività professionale dello psicologo: lo utilizziamo per scrivere, comunicare, memorizzare e valutare.

Grazie alla realtà virtuale potrebbe diventare anche lo strumento con cui migliorare le nostre capacità cliniche e formative. ^_^






Articolo Originale
di
Giuseppe Riva***



***Giuseppe Riva è Professore Associato di Psicologia
della Comunicazione presso la Facoltà di Psicologia
dell’Università Cattolica di Milano. è attualmente
il coordinatore del Progetto MIUR FIRB “NeuroTIV”
che sta esplorando gli aspetti psicologici e clinici
della realtà virtuale. Ha ricevuto nel 2005 il Laval
Virtual Award, che premia la migliore applicazione
della realtà virtuale in ambito clinico a livello mondiale.








Edited by filokalos - 6/4/2011, 18:21
 
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