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Il giallo del camper

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view post Posted on 18/3/2011, 20:52     +1   -1
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Il giallo del camper

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Nove anni di misteri, illazioni, presunti avvistamenti.
Il caso della famiglia Carretta di Parma,
noto anche come il "giallo del camper",
ha accompagnato l'immaginario collettivo
per quasi un decennio.
Una intera famiglia - una famiglia comune,
di gente perbene, riservata,
benestante, ma non ricca -
sparì nel nulla nell'estate del 1989.




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Giuseppe Carretta

Il padre, Giuseppe Carretta, di 53 anni, da trenta era impiegato in una industria vetraria, della quale era divenuto il ragioniere di fiducia; meticoloso, stimato dai colleghi, aveva con essi rapporti cordiali, ma limitati all'essenziale, mentre non aveva frequentazioni abituali con i parenti.


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Marta Chezzi

La madre, Marta Chezzi, 50 anni, era casalinga e amava i viaggi con il marito e i figli.
La coppia ne aveva due: Nicola, 23 anni, che lavorava in proprio come autotrasportatore, e Ferdinando, di 26, che era alla ricerca di un'occupazione stabile. Solo quest'ultimo non risultava partito per una vacanza, programmata dai familiari a bordo del camper che era il loro mezzo preferito.
Sarebbero dovuti partire il 4 agosto per raggiungere il Nord Africa attraverso la Francia e la Spagna, o forse la loro meta era la Jugoslavia.
Solo Ferdinando, come detto, era rimasto a casa, ma pochi giorni dopo era sparito pure lui.
I parenti diedero l'allarme dopo il 28 agosto, giorno in cui il capofamiglia sarebbe dovuto rientrare al lavoro dalle ferie: di lui e degli altri tre familiari non si sapeva più nulla.
L'ipotesi più verosimile era che avessero avuto un incidente, ma di loro come del camper non vi era traccia nei Paesi che avrebbero dovuto attraversare (furono condotte ricerche perfino nel deserto algerino).
Dovunque fossero finiti, i Carretta sembravano essere stati inghiottiti da un "buco nero" dal quale non sarebbero più tornati.



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Del caso si occupò nel novembre successivo la trasmissione tv Chi l'ha visto?.
E proprio in quella puntata, la telefonata di un cittadino di Milano permise di ritrovare il camper dei Carretta (nella foto del titolo), parcheggiato nel capoluogo lombardo in viale Aretusa, vicino allo stadio di San Siro.
Il veicolo aveva la batteria scarica ed era aperto sia al posto di guida che nella parte posteriore.
Chi l'aveva lasciato lì, e perché?
Che fine avevano fatto dunque i Carretta, se il camper sul quale li si cercava era fermo da mesi in un luogo tutt'altro che remoto? :o no?: A queste domande furono date le risposte più fantasiose. Partendo dall'occupazione del capofamiglia, che era cassiere in un importante stabilimento di decorazioni in vetro (la "Cerve") di Parma, si ipotizzò che l'uomo avesse sottratto capitali all'azienda, magari fondi "in nero", e che fosse fuggito all'estero con la famiglia per rifarsi una vita.

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I quattro membri
della famiglia Carretta
in una foto diffusa nel 1989
all'epoca della scomparsa

Motivi per cancellare il proprio passato non ve n'erano, ma saltò fuori che Nicola, il figlio minore, era caduto nel tunnel della tossicodipendenza, uscendone a fatica. Il giovane viveva con l'incubo di una ricaduta e in una lettera chiedeva di essere lasciato solo, ma la famiglia non intendeva abbandonarlo. Anzi, gli era stata sempre molto vicina, suscitando la gelosia del fratello maggiore.
La famiglia Carretta era comunque descritta da tutti come felice. Giuseppe aveva un lavoro soddisfacente, e prima di partire per le vacanze aveva fatto degli acquisti per la casa. Anche le scorte alimentari per il viaggio, annunciato ad amici e parenti, furono ritrovate intatte.
Alla "Cerve", peraltro, non risultavano ammanchi. In compenso, i Carretta si erano lasciati alle spalle un discreto patrimonio, fatto di due appartamenti in proprietà e di alcune centinaia di milioni di lire in Bot e titoli di Stato che il padre aveva appena provveduto a rinnovare. Proprio alla vigilia della partenza, Giuseppe Carretta aveva acquistato 8 milioni di lire in Bot, che si unirono agli altri 180 custoditi in banca.
Dopo il ritrovamento del camper a Milano, il magistrato di turno, l'allora sconosciuto Antonio Di Pietro (l'inchiesta di "Mani pulite" era ancora di là da venire), aprì un fascicolo contro ignoti per omicidio plurimo. L'inchiesta milanese andava ad aggiungersi a quella avviata dalla magistratura parmense.
Di Pietro fece passare al setaccio la casa dei Carretta con il metal detector e dispose ricerche nelle discariche del Parmense. Fra tutti, fu quello che più si avvicinò alla verità. Non così i colleghi di Giuseppe Carretta, che entrarono nella loro casa, in via Rimini 8, per cercare le chiavi della cassaforte dell'azienda.



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La casa dei Carretta,
in Via Rimini 8,
a Parma

Da alcuni accertamenti emerse che, prima di sparire anche lui, Ferdinando Carretta aveva rinnovato la carta d'identità e prelevato alcuni milioni di lire in banca, incassando due assegni con le firme del padre e del fratello.
Tali firme risultarono falsificate.
L'importo di quegli assegni non era però una gran cifra, al contrario: in tutto 7 milioni di lire, sufficienti per un viaggio e poco più.
Ma alcuni mesi prima il giovane aveva acquistato anche una pistola. Inoltre non vi era traccia dei gioielli di famiglia.
Ancora, si puntò il dito sulla gelosia che Ferdinando provava per il fratello, che anche per i suoi problemi con la droga - rimarcati in un diario trovato sulla sua auto - riceveva dai genitori maggiori attenzioni.
Negli anni seguenti, testimoni affermarono di aver visto i Carretta in diversi paradisi esotici del Sudamerica.
La loro presenza fu segnalata in Venezuela, nell'isola caraibica di Margarita, poi ad Aruba, nelle Antille olandesi, infine a Barbados.
Nel 1996 si sparse la voce che Giuseppe Carretta, rimasto vedovo e dopo aver cambiato il proprio nome in Piseppi Carreta, vivesse tra Aruba e il Venezuela, dove si era risposato e gestiva un "impero" finanziario protetto dalla malavita locale con ristoranti, negozi e villaggi turistici.
Un giornale pubblicò perfino una fotografia di quello che doveva essere Ferdinando Carretta, ritratto tra la folla all'ippodromo di Caracas («Il Resto del Carlino», 27.11-1996).
Mancavano pochi mesi alla dichiarazione di morte presunta, prevista per legge dieci anni dopo la scomparsa, e le indagini erano destinate all'archiviamone quando si ebbe notizia che uno dei Carretta era stato ritrovato.
Si trattava del figlio maggiore, Ferdinando.
Viveva in totale isolamento a Londra, dove abitava da anni, fin dal dicembre di quel 1989 da quando non aveva più dato notizie di sé. :hmm:



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Ferdinando Carretta viveva da solo in un modesto e spoglio monolocale di periferia a Chadewell Heath, un sobborgo residenziale popolato soprattutto da immigrati provenienti dall'Oriente. Per mantenersi aveva fatto diversi lavori saltuari, ultimo dei quali quello di fattorino per le consegne.
Al suo datore di lavoro aveva detto di essere sposato e di avere dei figli, ma non era vero.
Possedeva non più di 5000 sterline e riceveva un sussidio dall'assistenza sociale.
Insomma, il suo era un tenore di vita ben lontano da quello sul quale si era favoleggiato per anni.
A "tradirlo" fu un caso: un banale controllo stradale della polizia.
Sul suo motorino era transitato senza saperlo in una zona di Londra presidiata per timore di attentati dell'Ira.
Fermato per un controllo, alla richiesta di documenti esibì una patente intestata ad Antonio Ferdinando Carretta, nato il 7 novembre 1962. All'agente che gli chiese da dove veniva, rispose «Parma».
Lo scrupoloso "bobby", rientrato in Centrale, fece un ulteriore controllo negli archivi e così rintracciò, nella lista Interpol delle persone scomparse, l'intera famiglia Carretta.
Nell'elenco non figurava alcun Antonio, ma c'era un Ferdinando la cui data di nascita coincideva.
Il poliziotto informò l'Interpol, Londra avvisò Roma, che a sua volta contattò Parma.


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Il pm emiliano
Francesco Saverio Brancaccio
(a destra)

Il pm emiliano Francesco Saverio Brancaccio risalì all'estratto di nascita di Ferdinando e scoprì che solo su quel documento, e non sulla carta d'identità né sul passaporto, era registrato come Antonio Ferdinando Carretta.
Non c'erano più dubbi: era l'uomo che stavano cercando, con gli altri familiari, da oltre nove anni.
La pista che portava a Londra era già stata battuta, sulla base di una presunta prenotazione, intestata al padre, di un volo Londra-Barbados. E qualcuno aveva avanzato l'ipotesi che i Carretta per sparire dalla circolazione avessero contato sull'aiuto di conoscenti nella capitale inglese.
Ferdinando Carretta gridò la sua innocenza a ai giornalisti che vennero a intervistarlo: «Non ho la più pallida idea di dove siano i miei familiari. Non li vedo dal 1989. Da quell'anno non ho notizie di loro e nemmeno li ho cercati. Spero che siano ancora vivi. Ho deciso di scappare per motivi miei e ho scoperto solo in un secondo tempo che erano scappati anche i miei familiari. L'ho scoperto nel novembre dell'89, quando ero già a Londra e mi stavo chiedendo se tornare in Italia, mettermi in contatto con loro o rimanere nell'anonimato».

Rimanere nell'anonimato, essere dimenticato: questo diceva di volere Ferdinando.



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Tre immagini di Ferdinando Carretta
durante l'intervista nel programma
"Chi l'ha Visto" .

«Non so nulla dei miei genitori e di mio fratello. Ormai mi sento un inglese, voglio essere dimenticato. Illegalmente ho preso solo dei soldi per venire qui, poi mi sono arrangiato lavorando in una ditta di spedizioni. Ho degli amici e mi trovo bene, ma dovete rispettare la mia privacy.»

Spiegò di essere scappato dall'Italia in preda a gravi "problemi psicologici", problemi "ben specifici", iniziati quando era alle scuole medie, negli anni Settanta.

«Questi problemi psicologici mi stavano rendendo la vita intollerabile. La mia alternativa era o il medico e lo psicologo, o sparire. Ho scelto la seconda opzione. Sono venuto a Londra e ho sempre lavorato, vivendo non certo in uno stile di ricchezza, facendo vita reclusa senza amici e senza conoscenze... Sono venuto a Londra per cambiare pagina. Voglio essere lasciato in pace a vivermi la mia vita. E per questo che Londra mi piace tanto. Qui c'è il rispetto della privacy. Tutti si fanno gli affari loro.»

Non sapeva proprio come spiegarsi la scomparsa dei familiari, sui quali chiese aiuto agli inquirenti italiani per sapere se c'erano novità. Diceva di voler chiarire una volta per tutte la questione...

Con i genitori aveva problemi: «Io non ero più una persona normale e quindi c'erano dei diverbi, delle diatribe, dei quali mi prendo la responsabilità». La sua, concludeva, «è una storia più unica che rara.»
Sostenne che il padre maneggiava grosse somme: «È possibilissimo che mio padre avesse dei soldi nella cassaforte, prelevati per conto della sua ditta, e che li abbia presi prima di scappare. Solo lui aveva la chiave della cassaforte. A casa giravano tanti soldi. Li vedevo, ne parlavano. Ma non posso dire con certezza cosa sia successo».
Quanto alla pistola che risultava aver comprato poco tempo prima che i familiari si volatilizzassero, «l'ho comprata oltre un anno prima di quei fatti -disse - e me ne sono liberato gettandola in un canale di Parma pochi giorni prima di sparire».
Ammise di aver falsificato la firma del padre e del fratello per incassare due assegni dai loro conti: «Volevo assolutamente scappare. Avrei potuto prendere di più, ma non l'ho fatto.»
Raccontò anche di essere stato fermato un'altra volta dalla polizia londinese, nel giugno 1997, quando era stato appena assunto nella ditta di pony express, perché era salito su un marciapiede in sella alla sua bicicletta: «Mi fermarono per 45 minuti. Dopo un po' di controlli, un poliziotto mi chiese: ma lo sa che lei risulta sparito con tutta la famiglia? Sì, lo so gli risposi e finì lì».
La seconda, fatidica volta, «era la fine di una giornata. Ero stanco. Ho imboccato con la ruoto un senso sbagliato. Mi hanno tenuto per venti minuti e poi mi hanno lasciato andare».
Ai Caraibi non era proprio mai stato.
L'unico viaggio all'estero l'aveva fatto a Toronto, da dove raggiunse New York.
Dopo il 1991 «non ho però fatto più viaggi all'estero perché quell'anno mi è scaduto il passaporto e non l'ho rinnovato».
Pochi giorni dopo il suo "ritrovamento", il 29 novembre 1998, Ferdinando Carretta faceva rientro in Italia di sua volontà.
Appena atterrato a Fiumicino, scattarono le manette. Un arresto che a qualcuno parve un po' "costruito", compiuto nella maniera più spettacolare possibile, con un corteo di auto della polizia a sfrecciare sulla pista dell'aeroporto.
L'ordinanza di custodia cautelare disposta dalla Procura di Parma era pronta già da giorni.
I reati contestati erano il triplice omicidio dei congiunti, l'occultamento dei cadaveri e il possesso della pistola. Gli inquirenti non avevano prove, ma in compenso disponevano di una gran mole di indizi.
Poche ore dopo l'arresto, la confessione-bomba.
Fatta di getto, come in uno sfogo atteso per anni, ma nello stesso tempo lucida, precisa, completa.

«Mio padre mi aveva ripreso per una questione di cui mi vergogno a riferire, ma non si tratta né di soldi, né di droga. Quel rimprovero mi è rimasto impresso per anni. Lo odiavo e ho maturato l'idea dell'omicidio. Decisi di ucciderli prima della partenza per le vacanze perché avrei avuto più possibilità di occultare i cadaveri. Mio padre era nello sgabuzzino, stava preparando le cose da mettere nel camper. Gli sparai al petto. Arrivò mia madre e mi chiese: "Cosa hai fatto?". Sparai anche a lei e così a mio fratello quando rientrò. La pistola e i proiettili li acquistai tempo prima in un'armeria. In precedenza avevo già ottenuto il porto d'armi. L'obiettivo era mio padre, ma dovevo uccidere anche mia madre perché era una testimone. Mio fratello era legato a papà, se non lo avessi ucciso mi avrebbe ammazzato. Caricai i cadaveri sulla Croma di mio padre. Volevo nasconderli in una spianata, però c'erano delle persone. Allora mi recai alla discarica. Poi parcheggiai il camper vicino casa. Ho deciso di lasciarlo a Milano per avvalorare la tesi della sparizione».



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I giornalisti Luca Ponzi (RAI)
e Davide Barilli (Gazzetta di Parma)

Dunque era stato proprio Ferdinando Carretta a far sparire per sempre la sua famiglia. Aveva ucciso tutti i congiunti nella notte tra il 3 e il 4 agosto.
Inizialmente era sua intenzione sparare solo al padre, con il quale c'era un rapporto di odio, culminato più volte in litigi violenti.
L'ennesimo alterco, o una circostanza favorevole scatenò la furia omicida di Ferdinando.
Una furia maturata da un rancore a lungo covato, e che lo aveva portato già da tempo a prendere la decisione di ammazzarlo: l'arma - una pistola Walther calibro 6,35 procurata mesi prima, in febbraio, a Reggio Emilia.
Dopo aver colpito il padre, aveva rivolto l'arma alla mamma che era accorsa e più tardi a Catello minore, quand'era rientrato dalle ultime spese.
Come se continuasse a seguire un piano predeterminato, Carretta aveva ripulito tutto, tenendo i corpi in casa «per un po' di giorni», aspettando il fomento adatto per liberarsene senza farsi notare.
In quei giorni qualcuno lo vide affacciato alle finestre della sua abitazione, forse per sopravvivere ai miasmi dei cadaveri.
Poi, quando il momento giusto era arrivato, senza perdere la calma, aveva avvolto i corpi in sacchi di cellophane e li aveva caricati sull'auto (la Fiat Croma) del padre dopo averne ribaltato lo schienale.



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Ferdinando Carretta subito
dopo la confessione nel 1998

Il furgone del fratello non era disponibile perché era stato parcheggiato al posto del camper nell'aia di una casa colonica; quanto al camper, gli serviva per depistare le indagini.
Con l'auto aveva portato i corpi, di notte, nel Cornazzano, un territorio all'estrema periferia nord di Parma: una zona che conosceva per i suoi trascorsi di autista edile.
Avrebbe voluto scaricarli in uno spiazzo, ma c'era una coppietta e dovette ripiegare sull'argine del Taro, vicino a Viarolo. Lì, in un punto imprecisato, li aveva sepolti sotto un cumulo di sabbia, materiale che lo agevolò a finire in fretta.
L'arma del delitto fu gettata nel canale Naviglio insieme, pare, a una gabbietta con il gatto di famiglia.
Infine, la "mossa" di prendere il camper e parcheggiarlo a Milano.
Sul veicolo lasciò un giornale del 9 agosto; le chiavi le aveva un barista dei dintorni. Il giovane aveva interesse che le indagini rimanessero in Italia, mentre lui si trasferiva all'estero: in treno raggiunse la Svizzera, e da qui l'Inghilterra.

«Non vedeva l'ora di confessare, ha confessato subito», disse il gip Zanichelli. La sensazione degli investigatori era di avere di fronte un uomo che aveva deciso di liberarsi di un peso insostenibile per la sua coscienza.



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La discarica in località Viarolo,
a pochi chilometri da Parma

Ma nasce un giallo nel giallo. :hmm:
Ferdinando Carretta, infatti, aveva già confessato un'altra volta. Era accaduto pochi giorni prima, davanti alle telecamere di una troupe della trasmissione di Rai Tre Chi l'ha visto?. Uno scoop mostrato solo dopo l'arresto dell'uomo.
«Ho preso quella pistola, quell'arma da fuoco e ho sparato ai miei genitori e a mio fratello... È successo nell'appartamento di via Rimini, 8. È stato un atto di follia. Un atto di follia completa. In quell'estate dell'89 ero una persona pazza, una persona completamente pazza. Purtroppo la mente umana è un marchingegno diabolico» (Chi l'ha visto?, 30.11.1998).
In quella intervista Ferdinando Carretta definiva il padre «una bravissima persona» e Marta Chezzi «una madre meravigliosa che anche lei ha sempre fatto il meglio per i suoi figli»; quanto al fratello, che aveva avuto problemi di droga, «forse un giorno si sarebbe potuto recuperare completamente». Su di loro, aggiunse, aveva sfogato «i suoi istinti più bestiali».
Adesso lo attendevano anni diffìcili: «Forse meno difficili di quelli che ho passato. Questi sono stati anni terribili. Io sicuramente ho pagato, poi adesso andrò incontro alle conseguenze senza nessun problema».
Si aspettava che i parenti lo perdonassero? «Dipende da loro. Io spero ovviamente. Immagino il dramma che hanno vissuto dal 1989, senza sapere cosa era successo. Deve essere stata una cosa intollerabile. Vorrei che questa cosa non fosse mai successa. Posso dire che quello che ho fatto non lo avrei dovuto fare. La gente deve giudicare, io accetterò sempre qualsiasi conseguenza» (Chi l'ha visto?, 30.11.1998).



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Gli scavi nella zona
della ex discarica di Viarolo,
per ritrovare i cadaveri
della famiglia Carretta

Raccontò ancora che la sua mente aveva cominciato «a deteriorarsi» quando frequentava la scuola media e aveva cominciato a provare «l'infelicità di vivere».
Un trauma subito quando aveva 10 anni ma sul quale non seppe (o non volle) dire nulla di più. Fino a quel momento la famiglia Carretta era stata una famiglia felice, poi qualcosa era cambiato dentro quel ragazzino e molti anni dopo era esploso in una strage terribile, da cui era fuggito «per non tornare mai più». Ma il passato aveva continuato a tormentarlo: «Forse ho sofferto di più facendo una vita libera, andando fra la gente, camminando. Soffrivo di più che andare in prigione».
Restavano un mistero le tre prenotazioni a nome Carretta per il volo Londra-Barbados: «Un falso fatto da qualcuno che voleva speculare su questa tragedia», sostenne Ferdinando (Chi l'ha visto?, 30.11.1998).

Bastava la scioccante (e ripetuta) confessione spontanea di Ferdinando per mettere la parola fine al caso? No.

Dal punto di vista giudiziario restavano molte lacune da chiarire e mancava qualsiasi riscontro alle sue dichiarazioni.



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IL pm Francesco Saverio Brancaccio,
attorniato dai giornalisti dopo il sopralluogo
effettuato nella ex discarica di Viarolo

Mancava innanzitutto il corpo del reato: i cadaveri delle vittime, pur cercati a lungo, non furono mai trovati. Mancava l'arma del delitto, la pistola che l'uomo disse di aver gettato in un canale a strage compiuta. Mancava un movente plausibile: quello addotto da Ferdinando Carretta (un rimprovero che il padre gli aveva mosso per un fatto di molti anni prima) appariva inesistente secondo un "normale" metro di giudizio. Infine, non c'era alcuna traccia di quei problemi psicologici che il reo confesso sosteneva di aver avuto per anni, addirittura dall'adolescenza.
Sulla base della ricostruzione dell'uomo, inoltre, la vicenda presentava molti dubbi, che possiamo così riassumere:
a) l'ordine con il quale erano stati commessi i tre omicidi. Su di esso infatti Carretta si era contraddetto;
b) gli spari, i colpi esplosi dalla pistola, tanti (almeno sei), secchi, distanziati e rumorosi, ma che nessuno sentì nella notte del 4 agosto;
c) il fatto che i corpi senza vita erano stati tenuti in casa (nella vasca da bagno) per giorni, in piena estate. Gli inquirenti propendevano per non più di 24-48 ore, ma era possibile per Carretta convivere con quella presenza, e che nessuno ne avesse avvertito l'odore?
d) l'impresa di trasportare i corpi, da solo, fino all'auto, e di caricarli nel baule senza essere visto da alcuno. Come nessuno vide i movimenti del camper, spostato la stessa notte del delitto in una strada poco lontana, prima di risalirvi e mettersi in viaggio;
e) l'altra impresa di aver fatto sparire i cadaveri in breve tempo, eppure in maniera così efficace da non farli trovare mai più, e ancora una volta senza essere visto da nessuno, nonostante il luogo dove li aveva sepolti fosse frequentato;
f) l'essere riuscito a ripulire così a fondo l'appartamento da non lasciare alcuna traccia, se si esclude un mobile danneggiato;
g) il rimorso come motivo della confessione. Poteva questo sentimento risultare decisivo a tanti anni di distanza, e proprio davanti alle telecamere di una trasmissione televisiva?Successivi approfondimenti e verifiche consentirono di dissipare, almeno in parte, questi dubbi.



Il primo era tutto sommato ininfluente.
Quanto al secondo, diversi colpi di pistola dello stesso calibro di quella che Carretta sosteneva di aver usato furono esplosi all'interno della palazzina di via Rimini, e gli spari furono uditi molto debolmente o per nulla da testimoni vicino alla casa.
L'esame del Luminol (una tecnica chimica non ancora perfezionata ai tempi della scomparsa della famiglia) evidenziò, a oltre nove anni di distanza, una piccola macchia di sangue sotto il portasapone del bagno: dunque una traccia, seppure minima, era rimasta; e il Dna di quel sangue risultò essere di un uomo e di una donna, con «profili compatibili con la famiglia Carretta».
Per quanto riguardava l'assoluta mancanza di testimoni, non restò altra conclusione che quando Ferdinando Carretta fece sparire i corpi in giro non c'era nessuno. Una serie di circostanze fortunate gli avevano permesso di agire indisturbato.
Restava il mistero sulle ragioni del richiamo paterno che aveva scatenato in lui un tale rancore da decidere di ucciderlo.
All'origine vi era un atto solitario consumato nel 1982 e che Ferdinando definì «troppo umiliante» per poterlo raccontare, ma che gli inquirenti inquadravano come banale, senza scendere in particolari.
Non la masturbazione, ma probabilmente una defecazione nella sua stanza.
Follia, dunque, nella fase immaginatoria del delitto; perfetta preparazione e lucidità maniacale nella fase di esecuzione.



La parola passava ai periti. Silvio Merli, docente di medicina legale all'Università di Roma "La Sapienza", sottolineò «la scenografia inedita» della confessione: Carretta si era presentato in tv a confessare le sue colpe dopo nove anni, e «non credo sia mai accaduta una cosa simile», disse il professor Merli.
Per lo psichiatra Vittorino Andreoli si era trattato di «una prima grande confessione pubblica ma anche terapeutica», con la quale Ferdinando Carretta «ha dato un messaggio, non a parole, di un grande bisogno di liberazione comunicando a tutti. Una persona che ha bisogno di confessare il suo delitto, di dirlo a tutti e ci è riuscito» (Tg3, 1.12.1998).

Le ricerche dei resti dei tre familiari non hanno mai dato alcun risultato, nonostante l'impiego anche di mezzi all'avanguardia come il "geo-radar". Troppo tempo era passato, e troppo vaghe furono le indicazioni fornite dal sedicente assassino per poter trovare qualcosa.
Qualche sorpresa la riservarono invece le ispezioni condotte a Londra, dove Ferdinando Carretta aveva abitato per tutto quel tempo. Mentre il suo appartamento era spoglio (una libreria accanto all'unica finestra aveva gli scaffali vuoti), il garage era pieno di oggetti: oltre al suo motorino e al casco, c'erano tre biciclette - quantità che faceva supporre se non l'esistenza di una famiglia, almeno quella di alcune strette amicizie -, uno stereo, una televisione e sacchi neri di plastica pieni di dischi e di libri. Carretta ascoltava le canzoni di George Michael e dei Deacon Blue, e leggeva di tutto: dai gialli di Ruth Rendell ai romanzi di John Grisham, dai manuali di anatomia umana a opuscoli sulle malattie mentali e sessuali, a una guida del mondo legale e dei diritti del cittadino. Con sé, al momento dell'arresto, aveva ancora parte dei gioielli della madre, custoditi in un cofanetto.
Per il resto, non vi era traccia di diari né di conti in banca segreti. Inesistenti risultarono pure la moglie e i figli dei quali Ferdinando aveva parlato ai colleghi.



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L'Avvocato Marco Moglia,
uno dei due difensori di
Ferdinando Carretta

Dopo una breve detenzione in carcere, l'uomo fu trasferito in un ospedale psichiatrico giudiziario, dove continuò a ricevere lettere di ammiratrici.
Il perito e i consulenti di parte concordarono sul fatto che quando uccise i genitori e il fratello Ferdinando Carretta era incapace di intendere e di volere. La perizia escluse la mitomania, quindi l'uomo aveva detto la verità.
La strage era stata compiuta in stato di lucido delirio, maturato al culmine di una lunga follia nascosta quasi sempre tra le mura di casa, senza cure specifiche, in un rapporto di forte conflittualità col padre.
Il delirio era la conseguenza estrema di una follia covata per anni e assolutamente trascurata, l'esplosione di una rabbia incrementata nel tempo perché un giorno il padre lo aveva rimproverato per aver fatto i suoi bisogni in camera da letto: un morbo maturato a partire dal lontano 1972, dopo che la famiglia si era trasferita nell'abitazione di via Rimini: qui c'era un continuo via vai di autocarri per un deposito nei paraggi, e il rumore cominciò a disturbare la fragile mente del ragazzo creandogli problemi ad andare di corpo, almeno dal lato più esposto della casa, dove si trovava il bagno. Quel rimprovero e l'assenza di cure minarono la salute mentale di Carretta, malattia esplosa in quella notte di agosto del 1989.
Al processo in Corte d'Assise l'imputato confermò di aver ucciso a colpi di pistola il padre, la madre e il fratello minore e di aver poi nascosto i cadaveri. «Mi sono chiuso in bagno con la pistola, l'ho caricata, mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: ora o mai più.»
La strage era «una cosa che si è venuta costruendo dentro di me qualche mese addietro» e avrebbe potuto essere stata compiuta già a Pasqua di quello stesso anno, quando l'intera famiglia Carretta, sempre a bordo del camper, era andata a Lucca: «Avevo pensato di ucciderli in quell'occasione. Mi ero portato la pistola comprata in febbraio a Reggio, ma mi è mancato il coraggio. Allora ho poi optato per il giorno precedente alla loro partenza per le vacanze di agosto: era il momento propizio perché mi avrebbe concesso il tempo di ucciderli, seppellire i cadaveri e far perdere le mie tracce.»



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L'arma del delitto

I giudici gli chiesero perché avesse deciso di uccidere tutti i familiari, nonostante provasse odio soltanto per il padre. «Se avessi ucciso solo mio padre, mio fratello avrebbe poi ucciso me - spiegò. - In quanto a mia madre, se volevo rifarmi una vita dovevo togliere di mezzo anche lei. È terribile da dire, ma è così».

Carretta ammise «di aver avuto molta paura» restando a Parma per qualche giorno dopo la strage, con il rischio che i cadaveri venissero scoperti.
Ribadì di averli occultati «avvolti in sacchi di plastica e ricoprendoli con un po' di sabbia» in una discarica a Viarolo, dove furono poi cercati inutilmente. Perché aveva scelto Londra per nascondersi? «Perché sapevo bene l'inglese, Londra mi piaceva per la sua tolleranza e il suo rispetto della mia privacy. Lì non avrei dovuto cambiare generalità e infatti non l'ho fatto, perché sono molto legato al mio cognome.»

Gli psichiatri sentiti dalla Corte concordarono sull'incapacità di intendere e di volere dell'imputato all'epoca della strage, come sulla sua attuale pericolosità sociale.
L'accusa chiese il ricovero per dieci anni in Opg, ma i giudici il 15 novembre 1999, dopo quattro ore e mezza di camera di consiglio, ne disposero il ricovero solo per la metà di quel periodo, riconoscendo Carretta non imputabile per vizio totale di mente.



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Filippo Dinacci

La brevità del ricovero, secondo l'avvocato dell'imputato, Filippo Dinacci, si spiegava con il fatto che «la Corte ha ritenuto Ferdinando un soggetto pienamente recuperabile: è pieno di valori e sentimento».
Né il pm né la difesa ricorsero in appello.
Nelle motivazioni alla sentenza si legge che Ferdinando Carretta uccise i familiari in preda a un delirio che lo aveva portato a credere che eliminandoli sarebbe uscito dai suoi incubi.
La verità che raccontò aveva trovato riscontri concreti e la Corte aveva creduto «alla piena attendibilità» della confessione, sostanzialmente confermata nel corso di esami e interrogatori successivi alle prime ammissioni: erano mancate «non solo vere e proprie ritrattazioni, ma anche elementi di chiara contraddizione» e il perito d'ufficio, in pieno accordo con i periti di parte, aveva «ulteriormente ribadito di non aver reperito nell'imputato alcun tratto di mitomania»; inoltre testimoni avevano confermato le liti, l'isolamento, il difficile rapporto di Ferdinando con i suoi: dunque «non paiono sussistere convincenti elementi a suffragio dell'ipotesi di un allontanamento volontario della famiglia Carretta».
I giudici togati e popolari esclusero la premeditazione.



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Ferdinando Carretta esce dalla casa dei suoi, in compagnia dell'attuale compagna, appena
dimesso dall'ospedale psichiatrico e dopo esserne stato riconosciuto il legittimo proprietario... :blink:

Il movente doveva essere ravvisato «da un lato nel progressivo evolversi della malattia mentale e dall'altro nella sempre più crescente situazione di progressivo estraniamento e di forte conflitto dell'imputato con il proprio nucleo familiare».

Le ultime notizie su Ferdinando Carretta riferiscono di una sua relazione platonica, a quanto risulta già conclusa, con una donna ricoverata insieme a lui nello stesso ospedale giudiziario: fatto, questo, che per gli esperti è la dimostrazione che il lavoro svolto nella struttura psichiatrica sta dando buoni frutti.

Carretta, infatti, secondo quanto è stato accertato dalle perizie psichiatriche soffre di una patologia che compromette l'affettività; il fatto che abbia provato simpatia per una donna significherebbe che il distacco dalla realtà in lui si sta riducendo.

In altre parole, si sta evidenziando un successo dei terapeuti, che vedono il rinascere delle emozioni come il segno tangibile di una possibile guarigione. :eh?:

 
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