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Omicidio in comunità

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view post Posted on 3/10/2010, 21:31     +1   -1
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Omicidio in comunità

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Il delitto di cui si tratta in questa pagina
ha una caratteristica davvero particolare:
non c'è alcuna documentazione fotografica nel Web,
come se ci fosse stato un diligente lavoro di pulizia
tra le pagine d'Internet, voluto sia dalla Fondazione
che dai sostenitori di Vincenzo Muccioli.
Ci scusiamo con i lettori di questa pagina,
se le fotografie allegate non sono
contemporanei all'epoca dei fatti... :boh:




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Il logo di
San Patrignano

Fu uno dei casi giudiziari più clamorosi degli anni Novanta. Un uomo era stato ucciso, a botte, a San Patrignano, nella comunità per il recupero dei tossicodipendenti fondata e diretta in una frazione di Coriano, sulle colline riminesi, da Vincenzo Muccioli.
Quella comunità, nota a tutti e circondata da stima e gratitudine, aveva dimostrato con i fatti di poter strappare migliaia di giovani all'inferno della droga, restituendoli alla vita e agli affetti. Come una scintilla, la notizia che vi era stato consumato un omicidio accese il fuoco delle polemiche, che divampò a coinvolgere non tanto i diretti colpevoli, quanto piuttosto chi gestiva quel centro, lui: Muccioli.
Una personalità forte, sanguigna, diretta. E già per questo inviso a molti.



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Vincenzo Muccioli

Se infatti da un lato il fondatore della comunità di San Patrignano, attiva fin dal 1978, si era meritato l'incoraggiamento di larghe fasce della società, oltre che l'eterna riconoscenza di molti ragazzi e delle loro famiglie vittime dell'eroina, della malattia, dell'emarginazione, negli anni si era pure fatto molti nemici: la sua opera, per quanto lodevole, riusciva "scomoda" ed era motivo di invidia e diffidenza, che si traducevano in sospetti e maldicenze.

Già un decennio prima, all'inizio degli anni Ottanta, San Patrignano era finita sotto i riflettori nel celebre processo "delle catene".

Il 28 ottobre 1980 quattro tossicodipendenti ospiti della comunità terapeutica, allora agli albori e di dimensioni ancora ridotte, erano stati trovati, appunto, legati con delle catene.

Ne scaturì un processo a carico di Muccioli e di dodici fra i suoi più stretti collaboratori, accusati dalla magistratura riminese di sequestro di persona e di maltrattamenti.
«L'ho fatto per il loro bene», si difese Muccioli: impedire con ogni mezzo i movimenti ai tossicomani in crisi di astinenza da stupefacenti pareva l'unico modo per evitare che fuggissero a procurarsi la droga, o che facessero del male a sé stessi, come pure al personale e agli altri ospiti della comunità.

Il processo ebbe enorme eco e divise l'Italia in due. Da una parte, i fautori dei "metodi coercitivi" che andavano adottati in nome del supremo obiettivo del recupero terapeutico e della tutela della comunità; dall'altra, chi sosteneva che tali metodi erano disumani e calpestavano le libertà individuali. Durante il processo lo stesso Muccioli dovette affrontare il carcere per 32 giorni.



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Il Tribunale di Rimini

Il 16 febbraio 1985 il tribunale di Rimini condannò lui e gli altri imputati.
Questi però ottennero il loro riscatto in appello, nel novembre 1987, quando furono tutti assolti.
L'ultima parola spettava, ancora una volta, alla Cassazione, che il 29 marzo 1990 confermò l'assoluzione disposta dai giudici di secondo grado. La Suprema Corte, comunque, tenne a osservare che le misure coercitive in uso nella comunità dovevano essere attenuate: nella motivazione dell'atto finale del processo si leggeva che il leader di San Patrignano e i suoi operatori avevano agito «in stato di necessità putativa e non per consenso dei tossicodipendenti» per quanto riguardava il sequestro di persona, e «per eccesso colposo in stato di necessità putativa» per l'accusa di maltrattamenti («Ansa», 12.3.1993).

Trascorsero alcuni anni tranquilli, durante i quali la comunità di "SanPa" si allargò fino a divenire quasi una piccola città, estesa su 25 ettari (compresi i terreni agricoli, la superficie complessiva supera i 200 ettari). Gli ospiti erano saliti a oltre duemila, inquadrati in diversi settori produttivi, dall'agricoltura all'artigianato alla piccola industria: la filosofia della comunità restava che la migliore terapia contro gli stupefacenti fossero il lavoro e la responsabilità personale, assunti da subito come "valori guida" di San Patrignano.

La vita della comunità non fu sconvolta più di tanto neppure quando, il 7 maggio 1989, venne trovato in una zona di campagna a Terzigno (Napoli) il cadavere di un suo ospite, Roberto Maranzano, 36 anni, originario di Palermo. La morte risaliva a due giorni prima: qualcuno lo aveva ammazzato a calci e pugni, e poi aveva cercato di nasconderlo in quel luogo isolato, nei pressi di una discarica. Chi lo aveva ucciso? Ma soprattutto: dove?



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Il contestato monumento
dedicato a Muccioli
in quel di Terzigno...

Inizialmente le indagini si indirizzarono verso un regolamento di conti nell'ambito della malavita. Maranzano era fuggito dalla comunità ma era incappato nella vendetta dei suoi assassini. Dunque l'omicidio, secondo questa ricostruzione, era avvenuto al di fuori di San Patrignano, per cause legate allo spaccio della droga.

La verità era un'altra, ma venne alla luce solo alcuni anni più tardi. Nel gennaio 1993 Fabrizio Lorandi, un altro ragazzo ospite di San Patrignano, raccontò a un magistrato che Maranzano non era fuggito dalla comunità, ma era stato ucciso a botte all'interno di essa. Per la precisione, nella macelleria della comunità, dove lavoravano sia Lorandi sia Maranzano. Quindi i colpevoli dovevano essere cercati fra gli altri ospiti. Ma come poteva uno di questi sparire di colpo senza che nessuno se ne accorgesse? E quel pestaggio, così violento provocare la morte di Maranzano, possibile che fosse passato inosservato? rosa succedeva davvero a San Patrignano?

La comunità riminese veniva così travolta da un altro scandalo. E ancora una volta Vincenzo Muccioli finì nell'occhio del ciclone e in quella circostanza dichiarò: «È stato un uragano ciel sereno. A me sembra un sogno. Mi sembra assurdo il fatto in sé mi sembra impossibile che sia accaduto. Tutti i ragazzi appartenevano al reparto macelleria, che si trova accanto alle cucine. È impossibile che una loro assenza prolungata non sia stata notata. E poi in tutto questo tempo nessuno che abbia parlato, che sia venuto a dirlo a me. Mi sembra assurdo che un intero gruppo non abbia mai detto niente. Alcuni sono andati anche a casa. No, tutto questo sa di fantascienza. Alzare le mani - aggiunse parlando delle norme di comportamento a San Patrignano - non è proprio possibile. I ragazzi lo sanno; anzi, se uno ha un atteggiamento di mancanza di rispetto o se è violento non lo tengo, lo mando via anche se è agli arresti domiciliari» («Ansa», 16.9.1995).

In effetti, per quasi quattro anni l'omicidio di Roberto Maranzano rimase una verità ben celata. E quando intervenne la testimonianza di Fabrizio Lorandi, le responsabilità di Muccioli parvero evidenti: Muccioli doveva aver saputo cos'era successo quel 5 maggio del 1989.

In un primo tempo, il leader di SanPa disse di non sapere nulla di quanto aveva raccontato Lorandi, e di aver appreso della sua deposizione dai giornali («Ansa», 12.3.1993).

Due giorni dopo, però, si presentò spontaneamente dal magistrato, il procuratore della Repubblica Franco Battaglino, e ammise di essere stato subito informato del delitto, ma sotto il vincolo del segreto accordato agli stessi ragazzi della comunità; per questo non aveva denunciato il fatto («Ansa», 12.3.1993).



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Poi corresse ancora la sua versione, dicendo di non aver saputo subito, ma solo mesi dopo, dell'omicidio («Ansa», 14.3.1993).
È chiaro che a ogni versione di Muccioli corrispondeva una sua diversa responsabilità in quanto accaduto. Qual era la verità?

Ma gli inquirenti volevano dare una risposta anche ad altri, inquietanti interrogativi emersi dalle indagini dopo le rivelazioni di Fabrizio Lorandi. Era vero oppure no che il reparto dove Maranzano era stato pestato a morte, la macelleria-porcilaia di San Patrignano, era considerato un "reparto punitivo" all'interno della comunità, al quale erano assegnati i più indisciplinali?

E gli autori del pestaggio erano una "cellula impazzita", o la violenza in quella comunità era una sorta di prassi? La svolta nelle indagini seguita al racconto di Lorandi - arrivata, si ricordi, dopo l'assoluzione definitiva di Muccioli per il "processo delle catene" - sollevò una nuova ondata di sospetti sulla comunità e su quello che vi succedeva. La magistratura di Rimini procedette con l'arresto di otto persone, tutti ex tossicodipendenti, per omicidio preterintenzionale.



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La comunità di San patrignano

Tre di loro al momento dell'arresto erano ancora ospiti di San Patrignano e di una struttura affiliata a Trento.
Venne appurato che all'epoca del delitto nel reparto macelleria di SanPa lavoravano una quindicina di persone, il cui responsabile era Alfio Russo, nella stessa epoca di 33 anni, originario di Fiumefreddo (Catania) e residente in Lombardia, a Como. Negli interrogatori Russo negò ogni addebito, anzi disse che il pestaggio non era mai avvenuto («Ansa», 16.3.1993).

Al contrario un altro degli arrestati, Giuseppe Lupo, di Palermo, che nel 1989 aveva 27 anni ed era uno degli aiutanti di Russo, confermò la dinamica dell'omicidio ricostruita sulla base delle dichiarazioni rese dal "supertestimone" Lorandi. Maranzano, secondo questa ricostruzione, subì un primo pestaggio nel tardo pomeriggio del 4 maggio, mentre era sotto la doccia. L'aggressione poi rivelatasi mortale avvenne invece il mattino successivo («Ansa», 16.3.1993).

Lupo riferì poi che subito dopo la morte di Maranzano, Alfio Russo si era recato a casa di Muccioli. Questo particolare fu confermato da un testimone e dal racconto di un altro degli arrestati, Ezio Persico, allora di 37 anni, nato a Voghera ma residente a Como come Russo («Ansa», 21.3.1993).



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Vincenzo Muccioli gioca a braccio di ferro con i ragazzi della comunità
(foto Sestini, da ufficio stampa San Patrignano)



Lupo confessò anche di aver guidato lui l'auto sulla quale fu trasportato il cadavere di Maranzano fino a Terzigno. L'auto era una delle vetture in dotazione alla comunità; su di essa, oltre a Lupo, c'era Persico. I due affrontarono il lungo viaggio da Rimini a Terzigno (circa 1200 chilometri tra andata e ritorno) sprovvisti della patente di guida («Ansa», 16.3.1993).

Le indagini accertarono che tutti i giovani assegnati al reparto macelleria della comunità dormivano in una camerata comune; quindi già le conseguenze del primo pestaggio non sarebbero potute passare inosservate. Inoltre, dopo che Maranzano era morto, più di una persona aveva visto Russo correre da Muccioli per informarlo. Inevitabilmente, per quest'ultimo scattò un avviso di garanzia per favoreggiamento. Ma altre ombre si allungavano sulla comunità.



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La sala Mensa di San Patrignano




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Vincenzo Muccioli con un ragazzo della comunità
(foto Mauro Galligani, da ufficio stampa San Patrignano)

Dagli esami anatomo-patologici risultò che nel sangue di Maranzano c'erano tracce di eroina. E poiché un'ulteriore perizia escluse che la droga gli fosse stata somministrata dopo il decesso, e stabilì che era stata assunta tra le 4-6 ore e i 4-5 giorni precedenti la morte, veniva da concludere che l'uomo si fosse "bucato" quando era ospite di San Patrignano, cioè proprio di quel luogo simbolo della lotta alla droga.

L'autopsia accertò anche che a causare la morte di Maranzano era stata una «compressione prolungata con frattura dell'osso ioide» («Ansa», 24.11.1993): quindi non un colpo solo aveva spezzato il collo dell'uomo, ma una serie di colpi, sferrati presumibilmente da più persone.

Il procuratore Battaglino avanzò altri sospetti sulla vicenda, che chiamavano direttamente in causa Muccioli.

Alla vigilia di un interrogatorio al fondatore di San Patrignano dichiarò:«Chiederò chiarimenti anche sulla coperta che avvolgeva il corpo [di Maranzano] e che Muccioli non riconobbe come proveniente dalla comunità, e sulla gita che alcuni dei giovani che lavoravano nella macelleria fecero nel Pesarese proprio durante i primi controlli dei carabinieri nella comunità pochi giorni dopo la scoperta del cadavere. Infine cercherò di farmi spiegare perché gli stessi carabinieri furono portati a ispezionare locali Riversi da quelli che avevano chiesto di vedere»
(«Ansa», 21.3.1993).



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Un ritratto di Vincenzo Muccioli, fondatore di San Patrignano



Un quadro accusatorio per Muccioli andava aggravandosi: quando si arrivò al nrocesso, celebrato nell'autunno del 1994, doveva rispondere, oltre che di favoreggiamento, dell'accusa alternativa di omicidio colposo.
E nei giorni del dibattimento, cominciato il 17 ottobre 1994, gli inquirenti ascoltarono una serie di testi spontanei, tutti ex ospiti di SanPa, che raccontarono di violenze avvenute all'interno della comunità, di presunti raid punitivi, di suicidi sospetti e persino di un finanziamento illecito al Psi (si era negli anni di Tangentopoli) («Ansa», 16.9.1995).



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Vincenzo Muccioli nel 1994 - parla con Sabrina una ragazza della comunità
(foto Sestini, da ufficio stampa San Patrignano)



Tutti questi fatti indussero il pm Battaglino a chiedere il cambio di imputazione per Muccioli da omicidio colposo ad abuso dei mezzi di correzione sfociati in omicidio: un reato più grave, con pena prevista tra i 12 e i 20 anni di reclusione, che avrebbe comportato l'interruzione del procedimento e il suo trasferimento davanti alla Corte d'Assise. Il Tribunale di Rimini però respinse la richiesta.
Il processo fu un continuo susseguirsi di colpi di scena. Già alla seconda udienza, dopo che Lorandi aveva ripetuto in aula il suo racconto su quanto era avvenuto cinque anni prima nella macelleria, un teste finì agli arresti per reticenza.



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Il 26 ottobre spuntò un'audiocassetta che recava la registrazione di una conversazione tra Muccioli e il suo ex autista Walter Delogu. Tre testimoni dissero di essere a conoscenza della registrazione nella quale il leader di SanPa, parlando di uno dei testimoni dell'omicidio, diceva: «Bisognerebbe fargli un'overdose», e altre frasi simili («Ansa», 16.9.1995).



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Una manifestazione di solidarietà a Vincenzo Muccioli in piazza Tre Martiri



Muccioli dapprima negò di aver mai pronunciato quelle parole, poi ammise. La cassetta fu ascoltata in aula. Muccioli sostenne di aver detto quelle parole per provocare Delogu, per sondarlo psicologicamente, per vedere dove voleva arrivare e spiegò: «Sono anche stato ricattato da Delogu al quale ho dato 150 milioni. Non I ho denunciato per evitare traumi e destabilizzazioni ai 2500 ragazzi della comunità» («Ansa», 16.9.1995).
Al termine del processo, il 15 novembre 1994, Vincenzo Muccioli fu condannato a otto mesi di reclusione e al pagamento delle spese processuali per avoreggiamento personale, ma assolto dall'imputazione di omicidio colposo Per non aver commesso il fatto.
Nella motivazione alla sentenza, firmata dal presidente della Corte, il giudice Concezio Arcadi (a latere Luigi Tosti e Maurizio Di Palma), si legge che è Probabile, ma non certo, che Muccioli abbia saputo quasi subito dell'omicidio ma che il suo «comportamento antigiuridico (tacere il fatto e sviare le indagini dei carabinieri) va ricondotto alla necessità di dover difendere, dai possibili danni che nell'azione giudiziaria (e al collegato automatico clamore suscitato) sarebbero sicuramente conseguiti, sia la comunità nel suo insieme sia le persone che si era adoperato per anni a recuperare a una vita normale, lontano dalla tentazione della droga e del delitto che a quella
inevitabilmente si associa»
(«Ansa», 9.2.1995).



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Vincenzo Muccioli in posa - alle sue spalle una panoramica delle abitazioni



E ancora, citando una intervista al cardinale Ersilio Tonini, «nel momento stesso in cui le famiglie gli affidano i figli, lui prende il posto dei genitori. E Muccioli, pur sapendo, non poteva denunciare i propri figli» («Ansa», 9.2.1995).
Se Muccioli venne condannato per l'accusa di favoreggiamento personale lo si dovette alla testimonianza del maresciallo dei carabinieri di Terzigno, Mario Inverso, che subito dopo aver trovato e identificato il cadavere di Maranzano si recò a San Patrignano per ispezionare stanza ed effetti personali della vittima, ma fu portato in un dormitorio diverso, dopo che dalla comunità erano stati allontanati gli ospiti ritenuti più deboli: per l'occasione infatti San Patrignano organizzò una gita a Botticella (Pesaro).
Il magistrato scrisse: «Difficile dire, però, se a organizzare la gita sia stato davvero Vincenzo Muccioli» («Ansa», 9.2.1995).

Risulta poi chiaro che la Corte diede poco credito ai tre testimoni-chiave presentati dall'accusa, rappresentata in aula da Battaglino e dal sostituto Paolo Gengarelli. «Il procedimento - scrisse sempre nella motivazione della sentenza il giudice Concezio Arcadi - si nutriva dal punto di vista probatorio esclusivamente di dichiarazioni... e molti dei testi addotti figuravano tossicodipendenti o ex tossicodipendenti, sì che il loro esame e la loro valutazione poneva particolari ulteriori problematiche... Tanto Walter Delogu, quanto Roberto Assirelli e Patrizia Ruscelli [tutti testimoni ascoltati durante il processo, n.d.a.] hanno denunciato nel corso dei rispettivi esami gravi motivi di contrasto di natura personale ed economica col Muccioli» («Ansa», 9.2.1995).



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Muccioli ancora a tavola con i ragazzi
(foto Sestini, da ufficio stampa San Patrignano)



Per quanto riguardava invece l'accusa di omicidio colposo, il giudice Arcadi faceva notare come non esistesse il "nesso di causalità" tra la morte di Maranzano e l'operato del leader di San Patrignano, descritto come un uomo «con un'esperienza pluriennale di volontariato tesa a curare, sollevare e rigenerare il "tossico" bisognevole» («Ansa», 9.2.1995).

Per condannare Muccioli si sarebbe dovuto dimostrare l'esistenza, sostenuta dalla magistratura inquirente, di un reparto punitivo che fosse stato davvero concepito come tale, e che a capo vi fosse stato realmente messo un picchiatore. Ma questo non era stato dimostrato. Perché «Alfio Russo all'inizio era diverso, interessato... buono», e sarebbe "impazzito" all'improvviso senza che Muccioli potesse rendersene conto. In secondo luogo, «non risponde a verità che al reparto macelleria fossero inviati solo ospiti che si riteneva richiedessero un trattamento punitivo» («Ansa», 9.2.1995).
Se avesse saputo che lì avvenivano dei pestaggi, visto «che la sua comunità si nutre prima di ogni altra cosa di immagine», Muccioli sarebbe intervenuto a rimettere ordine.



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Vincenzo Muccioli appoggiato alla jeep, insieme ai ragazzi della comunità, guarda una prova di salto a ostacoli



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La Lavanderia di San Patrignano

Nella motivazione si accennava infine alla cassetta registrata da Walter Delogu, definito «un ricattatore», e si notava come il dialogo fosse avvenuto tra «due protagonisti in condizioni psicofisiche molto differenti: vigile e lucido il Delogu, che insieme guidava, parlava e provocava, e distratto e in evidente stato di torpore il Muccioli, che sonnecchiava durante un viaggio di ritorno in auto» («Ansa», 9.2.1995).

In ogni caso quel dialogo, per Arcadi, non sembrava di particolare importanza per il giudizio.
Di parere opposto fu la Procura di Rimini, che ricorse in Appello. All'inizio del 1995, poi. la Procura generale di Bologna chiese la nullità della sentenza di primo grado, nullità derivata a suo dire dalla mancata modifica del capo di imputazione da omicidio colposo ad abuso dei mezzi di correzione sfociati in omicidio. E su impugnazione ancora della Procura generale, la Corte d'Appello di Bologna annullò la sentenza del processo separato in cui Alfio Russo era stato riconosciuto colpevole di omicidio preterintenzionale, e trasmise gli atti alla Procura di Rimini per la diversa e più grave ipotesi di omicidio volontario in concorso con altri ospiti della comunità.
Concluso il processo a carico di Muccioli, le indagini della Procura riminese proseguirono e si estesero ad altre ipotesi di reato.
Nel frattempo, però, la Procura di Milano archiviò l'inchiesta sul finanziamento illecito al Psi e quella di Pescara fece altrettanto per il suicidio ritenuto sospetto di una ragazza ospite della comunità "satellite" di San Patrignano nella provincia abruzzese.



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Vincenzo Muccioli passò poi al contrattacco e presentò alcuni esposti alla Procura di Firenze in cui accusava il procuratore di Rimini Battaglino di violazione del segreto istruttorio. Ad essi si aggiunsero due denunce dell'avvocato Carlo Taormina, nuovo difensore di Muccioli, in cui si ipotizzava l'esistenza di una lobby politico-giudiziaria riminese che avrebbe agito contro il fondatore di San Patrignano.
L'ultimo dossier contro gli uffici giudiziari riminesi, che oltre a Battaglino chiamava in causa anche il gip Vincenzo Andreucci, chiedeva di fare luce, come spiegò lo stesso Taormina, sulle «modalità di gestione di scottanti inchieste giudiziarie e soprattutto sul trattamento riservato ad una tangentopoli riminese di cui è stato possibile notare qualche flash, ma nulla più» («Ansa», 16.9.1995).
Dal ciclone giudiziario che si era abbattuto su di lui, e al quale si era opposto con tutte le forze, Muccioli usciva stremato e profondamente prostrato. Una grave forma di debilitazione psicofisica lo colpì, fino a causarne la morte, sopraggiunta in quello stesso 1995.
<p align="justify">Restavano ancora da definire le responsabilità degli assassini di Maranzano. Alfio Russo, che una perizia psichiatrica aveva nel frattempo definito seminfermo di mente al momento del delitto, e Giuseppe Lupo furono condannati nel 1997 rispettivamente a 14 e a 7 anni di reclusione dalla Corte d'Assise di Rimini per omicidio preterintenzionale (il terzo imputato, Ezio Persico, era deceduto).
Per la pubblica accusa, invece, Maranzano fu colpito ripetutamente a morte perché si lamentava di precedenti pestaggi subiti a causa di episodi di indisciplina.
Nel processo di secondo grado davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Bologna, Russo e Lupo accettarono l'imputazione per omicidio volontario, accogliendo la proposta del procuratore generale Giuseppe Mattioli, e patteggiarono una condanna a 10 anni e 6 anni e tre mesi, condanne confermate in Cassazione il 13 maggio 2000.



Edited by filokalos - 3/2/2013, 08:48
 
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