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Freud senza Confini: Come la psiconalisi cambia...

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view post Posted on 24/3/2010, 22:28     +1   -1
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Freud senza Confini: Come la psiconalisi cambia...

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Un curioso monumento di Praga: la statua di Freud a penzoloni... :blink:


Anche la psicoanalisi
si apre alla globalizzazione.
E l’incontro con altre culture
e altre terapie
ha portato una rivoluzione.




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Sarà l’incontro con l’altro - lo straniero, il migrante, il diverso.

Sarà lo straordinario movimento dei saperi e delle credenze che oggi circolano da un emisfero all’altro con inedita rapidità.
Sarà la necessità della cultura medica di farsi global.

Certo è che la psicoterapia sta cambiando. E i segnali ci sono tutti.
In qualche caso, come per la psicoanalisi, si tratta di un ritorno alle origini.

In altri il cambiamento nasce dalla necessità di far fronte a modi diversi di esprimere e curare il disagio, dall’incontro con pazienti e terapeuti diversi.

Di fatto, oggi, la cura del disagio segue suggestioni nuove - come quelle che arrivano dal buddismo - ma soprattutto rivaluta cultura e società come elementi imprescindibili del nostro essere.

Mettendo in discussione categorie terapeutiche che sembravano inamovibili.



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Piero Coppo
etnopsichiatra

La novità è che le strutture pensate per rispondere alle esigenze di pazienti provenienti da altri culture cominciano ad aprirsi a chi non si accontenta di risposte standardizzate.
Piero Coppo, etnopsichiatra e psicoterapeuta, spiega: «Stiamo cominciando a capire che siamo tutti “diversi”: se vogliamo che la nostra diversità sia riconosciuta, la cosa migliore da fare è rivolgersi a chi è abituato a curare persone che vengono da lontano. L’incontro con altri mondi ha incrinato le categorie terapeutiche costruite dalla società occidentale».



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Paolo Inghilleri

Paolo Inghilleri, ordinario di psicologia sociale all’Università di Milano, aggiunge:
«Sono venute meno alcune certezze, ma abbiamo guadagnato la possibilità di elaborare nuovi modelli: la presenza di pazienti di altre culture ha ridato voce alla complessità della malattia mentale».



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La locandina non è quella del convegno Straniero Familiare
ma di un altro con analoghe tematiche... ;)

Se ne è parlato nel Novembre scorso a Milano, in occasione di un recente congresso del centro milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti sul tema Straniero/Familiare. Un’occasione per ricordare che la psicoanalisi ha ragioni storiche per reclamare una competenza in materia.




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Giovanni Foresti

Giovanni Foresti, segretario del Centro Milanese di Psicoanalisi, ha spiegato:«E non solo perché la Vienna dei primi del ’900 era una grande capitale multietnica, e lo stesso Freud, di origine ceca, in famiglia parlava yiddish. Il dato più importante è che fare analisi significa per definizione usare la lingua dell’altro. E anche l’apparato psichico parla lingue diverse, quella dei sogni ma anche dei diversi personaggi che costituiscono la costellazione psichica di un paziente. Perché la psicoanalisi mette paziente e analista sullo stesso piano, entrambi stranieri di fronte a un problema conosciuto solo parzialmente. È quando il paziente pensa che il terapeuta sia una sorta di genio onnisciente che la relazione diventa problematica. E lo stesso Freud spiegava l’analisi con la metafora della traduzione: paziente e terapeuta sono due viaggiatori in un paese straniero, uno conosce la geografia ma è cieco, l’altro non sa niente di geografia ma ci vede benissimo. Per orientarsi è indispensabile uno sforzo comune».



E per la psicoanalisi fatta di parole - una talking cure secondo la storica definizione data, in inglese, dalla tedesca Bertha Pappenheim, la paziente di Josep Breuer passata alla storia della psicoanalisi con il nome di Anna O. - lavorare con lingue diverse è un problema ma anche un vantaggio.

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Una figura mitica per tutti gli studenti di psicologia:
Bertha Pappenheim, meglio nota come Anna O.



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Perché può capitare, ha raccontato Silvia Amati Sas, che un’analista di origine ebraica emigrata in Argentina si trovi a seguire una paziente tedesca nipote di un gerarca nazista, si sforzi di vincere il pregiudizio che deriva da questa situazione, e scopra di essere stata scelta da questa paziente proprio perché europea e quindi considerata più affidabile degli psicoanalisti originari dell’America Latina.


Nel secondo dopoguerra, proprio in Argentina, si è sviluppata una psicoanalisi di straordinaria qualità proprio perché nata dall’incontro di persone formatesi in paesi diversi, che hanno così evitato il rischio di chiusure e rigidità dottrinarie.


La società colta che ruota intorno agli ambienti della psicoanalisi sembra molto lontana dalla realtà dell’immigrazione.


Ma anche nella nostra cultura c’è sempre stata un’alterità culturale che non ha mai avuto voce: «non siamo tanto diversi dai migranti».

E anche per noi il disagio nasce spesso dalla rottura di un rapporto con la propria comunità, e col proprio sistema di valori.


Così nascono nuove forme di terapia che tolgono al terapeuta il ruolo di comando per trasformarsi in un dialogo: «Una costruzione del percorso di uscita dalla malattia che prevede setting diversi da quelli tradizionali coinvolgendo spesso altre figure: i problemi non si vedono più come individuali ma come generati da un gruppo, che può essere o no fisicamente partecipe, ma a cui il lavoro terapeutico deve dare voce».




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A Milano ad esempio il centro Mindfulness Project, in cui psicoterapeuti di diversa formazione e insegnanti di meditazione lavorano su un’integrazione tra approccio occidentale e orientale, sfrutta per la formazione dei terapeuti pratiche di ispirazione buddista. Grazia Sacchi, responsabile del centro, spiega: «La meditazione è utilissima per allenare la consapevolezza all’interno della seduta, generando nella mente una situazione di vuoto, accoglienza e presenza non giudicante».



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Tutte novità che mettono in crisi il riduzionismo biologico su due fronti opposti: «C’è chi pensa che ogni depressione, ogni psicosi sia dovuta a fattori biologici e sia catalogabile con un manuale, considerando la cultura solo una delle tante variabili, che può al massimo condizionarne le manifestazioni. E chi invece riconosce che il disagio si sviluppa in modo diverso, che quello che possiamo chiamare un mal funzionamento della relazione tra sé e il mondo può essere interpretato in diversi modi, per esempio come la rottura di un tabù o della relazione con gli antenati. Noi tendiamo a pensarci come liberi, autonomi, dimenticando che gli attaccamenti costituiscono la nostra personalità».



Così come dimentichiamo ciò che anche i più accaniti fan della neurofisiologia riconoscono, e cioè che i circuiti cerebrali si modellano sull’esperienza. «Abbiamo cercato una spiegazione universale, si trattasse di neurologia o di struttura della personalità. Si pensava che la scienza bastasse a spiegare la natura umana. Ma le cose sono cambiate, la scienza parla di un dialogo continuo tra natura e cultura. E il confronto con gli stranieri ci spinge a ripensare la psichiatria».



Fino agli anni ’90 a dar vita al movimento definito etnopsichiatria sono stati soprattutto medici psichiatri che si sono trovati a operare in paesi stranieri e ne sono tornati con questo tipo di interrogativi, negli ultimi anni è stata la sofferenza dei migranti a obbligare i terapeuti a interrogarsi sul valore universale delle proprie discipline.



«La costatazione dell’impossibilità di esportare modelli teorici interpretativi e programmi di salute mentale ha spinto a sperimentare nuovi modelli.Inizialmente destinati solo agli stranieri ma che poi si sono “infiltrati” nella pratica clinica. Ad esempio, in un confronto con i guaritori africani, abbiamo visto che essi inizialmente apprezzavano la possibilità di disporre di farmaci per calmare pazienti agitati, mentre in un secondo momento ci hanno avvertiti del rischio di cronicizzare un processo che lasciato a se stesso, con le dovute cautele, avrebbe potuto esaurirsi da solo. Mentre trattandolo con farmaci si sarebbe cronicizzato diventando più difficile da eliminare».



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Anche il buddismo offre chiavi di lettura diverse di alcuni fenomeni psichici: «L’attaccamento, per esempio, nella psicologia occidentale è una base fondante della personalità, mentre per la filosofia buddista è uno dei veleni della mente.
La soluzione è sviluppare un attaccamento sano per costruire un sé in grado poi di relativizzare gli attaccamenti, di riconoscerne l’impermanenza. Quella che il buddismo definisce la via di mezzo».


Per quanto riguarda la depressione, l’etnopsichiatria riflette sulla diffusione del disturbo nelle società industrializzate:
«In Italia si vendono 25 milioni di confezioni di antidepressivi, si tratta di un fenomeno di massa più che di una patologia.
Gli etnopsichiatri si chiedono se questo possa dipendere dall’assenza di fattori di protezione, o dalla presenza di maggiori fattori di rischio, come l’isolamento, la mancanza di supporto sociale, o lo stesso atteggiamento del medico, che è formato per catalogare come depressione determinati comportamenti».



E anche l’approccio terapeutico sta cambiando.


La filosofia buddista insegna a lavorare sulla parte sana della mente, inviando compassione e gentilezza alle parti disturbate e sofferenti.


E già questo può aiutare ad alleviare o a risolvere depressione o ansie.


Elementi di filosofia buddista, come gentilezza ed empatia, possono essere utilizzati per un percorso terapeutico.


Ma attenzione a non confonderlo con un percorso spirituale che è un’esperienza di crescita personale, e non una terapia. :no no:


I servizi di igiene mentale si stanno attrezzando.


E cominciano a nascere programmi dedicati ai migranti e alle loro famiglie, spesso in collaborazione con associazioni di volontariato.



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Come quello sostenuto dalla Fondazione Cecchini Pace presso l’ospedale Niguarda di Milano o quello dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma. Per far fronte a situazioni diverse e complesse.

Vanna Berlincioni, psicoanalista e psichiatra dell’Università di Pavia, spiega:«Arrivano soprattutto pazienti africani o dell’ex Europa dell’Est, altri centri assistono soprattutto magrebini o sudamericani. E poi rifugiati politici, diversi tra loro per provenienza e cultura ma spesso uniti da una visione ottimistica e distorta del mondo occidentale.»




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Un convegno promosso da Vanna Berlincioni sulle problematiche dell'immigrazione




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«Curare questi pazienti significa affrontare modi diversi di interpretare la malattia.
Le diagnosi occidentali parlano di episodi maniacali acuti, agitazione psicomotoria, alcolismo, o disturbi somatici legati a uno stato depressivo, aggravati spesso da condizioni di precarietà.
Ma i migranti a volte attribuiscono la loro sofferenza - depressione, ansia, insonnia o sindrome persecutoria - a un comportamento errato nei confronti degli antenati, in altri termini da un disagio relativo alla relazione del paziente con la propria comunità».



Così, può succedere di prescrivere un farmaco e al tempo stesso aiutare il paziente a riprendere contatto con i familiari rimasti in patria perché organizzino i necessari rituali.

O che sia la sacerdotessa della Santeria, consultata per telefono, a invitare la sua paziente a seguire le terapie proposte dai medici italiani. Molti interventi riguardano i migranti più giovani.

«Come quelli che accogliamo a Milano nel centro sostenuto dal Comune e dalla Cariplo», spiega Anna Bassetti, psicoanalista e presidente della Fondazione L’Aliante: «Ragazzi soli che arrivano soprattutto dall’Africa sfuggendo situazioni drammatiche, e che hanno perso tutti i riferimenti culturali e affettivi: sono in stato di confusione, hanno aspettative non realistiche, pensano di avercela fatta arrivando in Italia».



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Si cerca di aiutarli con una spada di Damocle pendente perché la maggiore età significa per chi non trova un lavoro regolare l’entrata in clandestinità.


«I ragazzi reagiscono con rabbia verso il paese che hanno dovuto lasciare e quello di accoglienza, o depressione che si esprime con aggressività.
Ci sono poi casi più gravi, difficili da assistere: ragazzi che, disinseriti dal loro contesto culturale, si perdono fino a crollare, e sviluppare anche deliri di persecuzione».




Diverso il problema di chi arriva per ricongiungersi con la famiglia dopo una lunga separazione.




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«Un incontro tra semisconosciuti che fa nascere difficoltà relazionali, anche per la difficoltà di accettare l’autorità di genitori che nelle visite in patria apparivano ricchi e autorevoli mentre qui vivono nel disagio».




Senza dimenticare i pazienti di seconda generazione che cominciano ad arrivare nei servizi: per loro accettare o no una terapia farmacologica significa spesso fare una scelta di campo, che può provocare dolorosi conflitti. :o no?:

:kiss:



Articolo Originale di
Paola Emilia Cicerone


Edited by filokalos - 13/8/2013, 12:53
 
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