Certi ristoranti lavorano onorevolmente per anni e restano nell’ombra, senza emergere al di là della cerchia dei propri habitué.
Poi, quasi all’improvviso e senza che nulla nella sostanza sia cambiato, diventano “di moda”, sono presi d’assalto da nuovi fan che, con il passaparola, ne determinano il successo.
A volte, quando c’è sostanza e mestiere, durano; a volte, quando vendono più fumo che arrosto, tornano nell’ombra dopo un paio di stagioni.
L’Osteria della Gensola (le gensole sono per i romani le giuggiole) sembra avere le carte in regola per durare ben più dello spazio d’un mattino: la sua buona cucina, magari ripulita di qualche stonatura “creativa”, sarà attraente anche quando i proprietari di Ferrari e Bentley e i para-vip con superscorte che ne ostruiscono l’ingresso avranno scoperto nuove mete.
È fra il Lungotevere degli Anguillara e piazza in Piscinula, non vuole essere moderna né elegante, è ordinata e ordinaria, i tavoli sono stretti e ravvicinati.
I piatti sono godibili, ancorché viziati qua e là da eccesso di crudismo ittico.
Nel senso che il nocciolo duro della carta sono i classici romaneschi (carbonara, amatriciana, coda, trippa ecc.), rafforzati da un buon assortimento di pesci cucinati secondo la vena siculo-friulan-romanesca del proprietario e cuoco Claudio Dordei.
Il quale non si esime dal proporre l’insopportabile e onnipresente tartare di tonno - ormai il vero piatto nazionale italiano: da Capo Passero a Vipiteno non c’è pizzeria, trattoria, tavola calda o ristorante che non l’abbia in carta - o l’altrettanto immancabile “uovo di Parisi” (magari con “tartufo bianco d’Alba” in carta a luglio).
Ma si riscatta con il menu del mercato: spaghetti ai ricci o con alici e pecorino, baccalà alla griglia con pomodoro, basilico e aglio, zuppa di cardi con polpettine di manzo, spiedino di alici gratinate con cicoria.
Si beve bene, la cantina è in crescita e si paga il giusto: un menu, vino compreso, a 41 euro, alla carta sui 50.