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La causa persa della poesia, Alessandro Piperno

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view post Posted on 5/8/2009, 07:30     +1   -1
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La causa persa della poesia





Alessandro Piperno

L'amore raccontato da Tolstoj.
La felicità di Flaubert.
Le atmosfere di Kafka.
La profezia di Schulz.
La strategia di uno scrittore
per affrontare la realtà.
E ritrovare slancio vitale.





Alessandro Piperno è l'autore del fortunato "Con le peggiori intenzioni", il bestseller uscito da Mondadori quattro anni fa ed è anche professore di letteratura (insegna a Roma all'Università di Tor Vergata), nonché un esperto di Proust e di Baudelaire.


Ha scritto; "Proust antiebreo" (Franco Angeli) e "Il demone reazionario. Sulle tracce del Baudelaire di Sartre" (Gaffi).

Ora che ha compiuto i 37 anni, ha appena ultimato il suo secondo romanzo che uscirà a fine anno sempre da Mondadori: una specie di ambizioso libro-fiume in cui rende omaggio ai suoi autori preferiti.

Tra questi, un posto particolare ha Bruno Schulz .
Schulz, ebreo polacco, le cui opere sono state pubblicate in Italia con Einaudi, ha influenzato i migliori scrittori contemporanei: Philip Roth, David Grossman, Nicole Krauss, Danilo Kis, per citarne alcuni.

È stato ucciso con una pallottola in testa da un SS nel 1942 nel ghetto di Drohobycz, per fare un dispetto ad un'altra SS per la quale lo scrittore lavorava (aveva affrescato la camera di suo figlio).





Prendendo spunto da un articolo di Alessandro Piperno, in vista del suo nuovo lavoro letterario, arricchiamo le stanze di Erato, parlando di poesia e di come il mondo ne abbia ancora bisogno... :)




Immaginiamoci di condividere un certo stato di demoralizzazione e di generale disappunto nei confronti di tutto ciò che ci circonda. Che non è soltanto un disagio storico (crisi, capricci delle Borsa, disoccupazione, corruzione dei premi letterari, ecc. ecc.), ma anche e soprattutto universale.
Scegliamo di pensare che, per fare fronte all’insoffribile gracchiare dei corvi interiori, ognuno di noi abbia messo a punto strategie difensive che si sperano efficaci e non effimere.
Ad esempio: alzarsi dalla postazione della banca per cui si lavora in stato di costrizione e riscoprire il senso della vita nella scollatura di una collega che profuma di sudore e di Primavera.
Risparmiamoci il computo dei diversivi più disgustosi, e concentriamoci sulla sola strategia che passi il vaglio della censura interiore, prendendo in prestito il famosissimo pezzo di Manhattan di Woody Allen, in cui il protagonista, sopraffatto dalla sconforto, si sdraia sul sofà e fa la conta delle cose per cui vale la pena vivere.



Dopo un attimo di esitazione il catalogo delle cose salvifiche gli fuoriesce dalle labbra in un gorgo nitido e spumeggiante. E il sole torna a splendere sull’orizzonte emotivo.





Nulla di sorprendente che le cose da lui enumerate avessero a che fare con una fatica sportiva o con un’impresa artistica (da Joe Di Maggio, campione di baseball a Cézanne).
Forse perché Woody Allen non fa altro che descrivere, nella maniera geniale che lo distingue, un modo di agire nel quale è facile riconoscersi.

C'è chi può vivere un’esistenza in cui sport e arte svolgono il ruolo di sottrarsi al pattume circostante. :si si:

Un tuffo di Tania Cagnotto o gli ultimi 50 metri di Federica Pellegrini possono agire sui nervi con la stessa energia della sintassi proustiana.

Certo, ci sono dolori del tutto inconsolabili. Come quel tizio in camice bianco che un giorno dirà: “Mi addolora dirle che le restano un paio di settimane di vita”. Possiamo credere che subito dopo non ci verrà voglia di rilassarci un po’ con un concerto di Mozart.

E anche se qualcuno ci costringesse ad ascoltarlo, c'è da giurarci che esso avrebbe un effetto più beffardo che struggente, e di certo non riuscirebbe a calmare l'indecorosa paura di non esistere.





È inutile chiedere troppo all’arte. Nei momenti fondamentali anch’essa latita. :huh:



Ma grazie al cielo la vita è piena di momenti irrilevanti che chiedono solo di essere colmati di tutto quel ben di Dio.

Inutile pensare che l’arte possa svolgere una qualsiasi utilità sociale (chi oggi dice il contrario vuole dissotterrare un cadavere anni ‘50).

Ma che essa possa svolgere un qualche ruolo nella vita degli individui non c'è da dubitarne.

Pensiamo a certe grandi scene della letteratura che hanno reso più variopinto e palpitante il nostro immaginario.

Una scena su tutte si svolge in un soleggiato benché gelido primo pomeriggio di San Pietroburgo.

Il protagonista è un certo Levin Kostantin che, sceso dalla carrozza, si avvia verso un campo di pattinaggio posto al centro d’un grande parco perché sa che lì vi troverà Kitti, la ragazzina di cui è innamorato e che non vede da molto tempo.

È tutto un fulgore di riflessi abbaglianti: ghiaccio, sole, neve, lame di metallo dei pattini, e via dicendo.

Ebbene, rileggendo: “Dinanzi a lui si aprì il campo di pattinaggio, e immediatamente fra tutti quelli che pattinavano riconobbe lei”,





Beh, non è difficile sentire i peli delle braccia rizzarsi: un miracolo fisiologico merito del conte Lev Tolstoj, e pochi altri.

Ecco perché, tra le molte patacche da Terza Pagina che girano di questi tempi (e che Flaubert avrebbe certo collezionato nel suo famoso stupidario) questa faccenda “del ritorno alla realtà” suscita tanta irritazione.

Il discorso è dei più rozzi e viene formulato più o meno così: “Caro scrittore, la letteratura deve ritornare alla ‘realtà’! Attieniti a queste direttive e sarai da noi lodato”.

Cosa può fare uno se non ascoltare un tale vaniloquio con costernata stupefazione?
Ricorrere, come minimo all’ausilio di Nabokov per replicare a questi contrabbandieri di ‘realtà’ a buon mercato.

Il vecchio Vladimir era solito dire:
“La realtà è una successione infinita di passi, di gradi di percezione, di doppi fondi, ed è dunque inestinguibile, irraggiungibile. Viviamo circondati da oggetti più o meno illusori”.

Davvero ben detto. Trattare la realtà come una cosa che tutti ci riguarda, che per tutti ha lo stesso sapore, è un’assurdità demagogica degna di cervelli non abbastanza aperti al molteplice.



Bisognerebbe, per esempio, avere un grande rispetto per i daltonici, e per la pertinacia con cui si ostinano a dirci che ciò che per noi è azzurro per loro è rosso.
Di sicuro non saremmo disposti a giurare di fronte a Dio che il nostro azzurro sia più vero del loro rosso. E che, in fondo i daltonici siamo noi...

Non c'è dubbio che la letteratura sia implicata con tutto quello che esiste là fuori.
E che ogni volta che la letteratura perde di vista il contributo essenziale del ‘là fuori’, essa sbanda e diventa irrimediabilmente stucchevole: non c'è nulla da argomentare sul fatto che la felicità dell’arte trascenda dai conti da pagare o dal mutuo da chiedere.

Una volta quel gran realista di Flaubert scrisse a un’amica:
“Ho intravisto talvolta (nei miei bei giorni di sole), alla luce d’un entusiasmo che mi faceva fremere dal tallone alla radice dei capelli, uno stato d’animo così superiore alla vita, per il quale nulla sarebbe la gloria, e la felicità stessa inutile”.

Sono queste le felicità che insegue chi scrive e chi legge. Non trovi? Altro che realtà! Siamo qui a invocare le glorie dell’immaginazione.
Cioè dell’attitudine che Baudelaire chiamava la “regina delle facoltà” e che considerava “imparentata con l’infinito”.

Non bisogna lasciarsi sedurre dall’eccessiva enfasi baudelairiana, forse. :eh?:





Occorre riportarla a noi, nettarla della patina romantica che oggi non ci sta simpatica.

Ma dopo aver compiuto questa operazione di pulizia, si rimane sedotti dalla verità del pensiero espresso da Baudelaire.

Lui dà il coraggio di opporre agli spacciatori di quella droga dozzinale chiamata ‘realtà’ la più banale delle constatazioni: in arte la realtà non esiste a meno che non sia trascesa da quei pochi che hanno la fortuna di saperlo fare.

Una volta che la realtà non è più realtà ma bensì ‘realtà trascesa’, ecco che il grande salto verso il regno della fantasia è stato compiuto, e non resta che godersi il soggiorno in quella fortezza dell’immaginazione.

Interessante anche l’idea di Gadamer secondo cui l’arte non rappresenta la realtà ma la realizza. Nel senso che la crea.

Tanto per capirsi non esisteva alcuna dolce vita prima che Fellini e Flaiano se la inventassero.


Tutto ciò può indurre l’equivoco che si possa essere a caccia di consolazioni estetizzanti, o di ombrosi ripari in mondi alternativi. ma non è così. :no no:

Perché il gioco dell’arte sembra tanto più eccezionale se fa i conti con l’esistenza nelle sue forme più miserevoli e più estreme. :cannabis:





In tal senso, le prime righe de ‘Il castello‘ di Kafka rappresentano uno dei vertici dell’immaginazione umana.
Uno dei luoghi in cui l’emozione è talmente tesa e densa da risultare intollerabile. Da spaccare i nervi. :paula:

Quella tarda sera in cui il signor K giunge in un remotissimo paese soffocato da tonnellate di neve ha la forza primigenia di un’idea platonica.

Si tratta di un luogo di stupefacente angoscia. Eppure rende felici.

Altro esempio ci proviene dalla biografia di Bruno Schulz: ‘Le botteghe color cannella’ (il suo libro più famoso) è l’autobiografia più straordinaria che sia stata scritta. E proprio in virtù della sua sorprendente inattendibilità. E allo stesso tempo per il tentativo intrapreso dall’angustiatissimo Schulz di trovare un’alternativa a un’esistenza che come ultimo dono gli avrebbe regalato una pallottola alla nuca esplosa da un soldato nazista.

Leggendo quel capolavoro viene così naturale prendere le parti del padre del Narratore: un delicato commerciante che improvvisamente, anticipando il destino del figlio, si sbarazza dai suoi doveri di uomo pratico, per votarsi a un mondo soprannaturale - un universo contiguo al nostro, popolato da creature strampalate in perenne metamorfosi.







La strategia di quest’uomo per recuperare “la radice della sua esistenza” è di spalancare i suoi sensi all’universo. Eppure neanche questo fa di lui un uomo felice.

Perché è alle prese con una guerra perduta in partenza: “Soltanto oggi comprendo il solitario eroismo con cui egli, da solo, mosse guerra all’elemento sconfinato della noia che soffocava la città.
Senza alcun appoggio, senza alcun riconoscimento da parte nostra, quell’uomo straordinario difese la causa persa della poesia”.


Ecco di cosa volevo parlarti: della causa persa della poesia. ^_^










Foto di
Heimo Zobernig
 
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