Il Forum delle Muse

PICCOLA BAMBOLA DI NATALE, Vittorio Frigerio

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Andbeat
view post Posted on 24/8/2007, 06:46     +1   -1




PICCOLA BAMBOLA DI NATALE
di Vittorio Frigerio



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Will Hale aveva la febbre. Non la febbre alta, sicuramente,
ma abbastanza da sentirsi a disagio,
per non riuscire a concentrarsi sul lavoro più di quel tanto.

Gli sudavano i palmi delle mani,
una cosa che gli aveva sempre dato gran fastidio,
e due o tre volte, quando aveva dovuto alzarsi
per andare alla fotocopiatrice,
o per chiedere a Pam se avesse spedito quei fax
di cui le aveva chiesto di occuparsi,
gli si era anche messa a girare la testa.

Allora ci aveva riflettuto un momento e si era detto che
stavolta avrebbe fatto un'eccezione.
Meglio andare a casa a riposare,
anche se non erano ancora le tre pomeridiane.
Non c'era nulla di troppo urgente da sbrigare,
e d'altronde se non stava bene era forse anche
perché da più di un mese lavorava troppo,
facendo venti, perfino venticinque ore di straordinario alla settimana.

Il lavoro gli piaceva, gli era sempre piaciuto,
ma capiva anche che un ritmo come quello
non si può sostenere troppo a lungo.
La macchina va fatta riposare, se no finisce per guastarsi,
e poi per aggiustarla ci vogliono ben altro che
qualche ora di sonno, o una serata al ristorante
e poi al cinema per cambiarsi le idee.

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La segretaria era in pausa.
Si limitò a lasciarle un breve messaggio sulla scrivania,
avvisandola della sua partenza e chiedendole di chiamarlo
a casa se qualcosa avesse dovuto richiedere
il suo intervento personale.
Ma erano parole che scriveva per la forma.
Era stata una giornata tranquilla e non s'aspettava sorprese.

Will impugnò la sua bella cartella di cuoio, morbida e liscia,
piacevolmente leggera, e s'affrettò ad uscire.
Era sollevato di non aver dovuto spiegare a viva voce
a Pam che non si sentiva troppo bene.
Cose così sembrano sempre pretesti, bugie,
anche quando sono verissime,
a meno che a venirti a prendere ci sia l'ambulanza.

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La porta dell'ufficio di Jack era chiusa
ma la sua voce forte e profonda risuonava fino nel corridoio.

Tanto meglio, così non mi vede,
pensò Will, e si sentì subito un po' vergognoso
di essere contento d'aver potuto evitare il suo vecchio collega.

Jack era simpatico, anche se aveva la maledetta abitudine
di gridare sempre invece di parlare,
ma era solo perché passava gran parte della giornata
al telefono con i clienti e doveva farsi sentire bene,
enunciare chiaramente, ché non ci fossero malintesi.

Col tempo, il gridare era diventata una consuetudine.
Parte del suo carattere.
Non questo, però, gli dava noia oggi.
Lo infastidiva il sapere benissimo che Jack
non avrebbe resistito alla tentazione di scherzarci su.
L'avrebbe accusato immancabilmente di svignarsela
all'inglese per lasciare il lavoro agli altri.

Lo sentiva già, vedeva già il suo sorriso storto
come se l'avesse avuto davanti agli occhi.
Normalmente non se la sarebbe presa.
Non aveva bisogno di giustificarsi con nessuno,
la sua parte l'aveva sempre fatta,
ed era cosa più che risaputa.

In quel momento, tuttavia, non aveva il coraggio di fare
il faceto anche lui, d'essere obbligato a inventare sui due piedi
qualcosa di divertente da rispondergli.

O perlomeno qualcosa che potesse sembrare divertente,
detto colla voce giusta, coi gesti convenuti.
Il pensiero lo irritava.
Sarà stato a causa della febbre e della stanchezza,
perché di solito lui non era un tipo così.

Ci fu poco da aspettare per l'ascensore,
e quando arrivò non c'era dentro nessuno.
Anche quello era insolito e anche quello gli piacque.
Durante la discesa, però, fu sorpreso di sentire
le pareti della cabina battere ritmicamente contro i muri del pozzo.
Non ci aveva mai fatto caso.
Forse perché di solito l'ascensore era strapieno
e il peso della gente gli dava maggiore stabilità.

Mentre ora era solo, dal ventiquattresimo piano
fino al pianterreno, e per la prima volta capiva cosa
volesse dire l'essere proprio sospeso sul vuoto,
in un guscio sottile appeso a un filo.

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Aveva avuto una sensazione simile la prima volta
che era andato al gabinetto, all'ufficio,
un giorno di temporale, vedendo l'acqua nel cesso
che si agitava tale e quale un mare in miniatura.
Non avrebbe mai creduto che un grattacielo
potesse ondulare col vento, e l'idea l'aveva quasi fatto star male.
Ma in seguito si era abituato. Anzi, era riuscito a non pensarci più.

L'ascensore non si fermava esattamente al pianterreno,
ma ad una specie di piano sopraelevato.
Una scalinata di marmo rosa, divisa nel bel mezzo
da una fontana con zampilli d'acqua
e una cascatella artificiale conduceva poi
alle grandi porte di vetro dell'uscita.

A Will quello era sempre andato a genio perché
così non sembrava l'ingresso d'un palazzone d'uffici
qual'era in realtà, ma piuttosto il vestibolo d'un tempio esotico,
forse egizio o qualcosa del genere,
visto che in piccole isolette, a varie altezze,
avevano anche avuto l'idea di sparpagliare
delle piante verdi dalle foglie lunghe e appuntite
che gli ricordavano dei palmizi.

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All'ora del pranzo c'era gente che vi si soffermava volentieri.
Si sedevano alla buona sui gradini, in disparte per non disturbare,
e mangiucchiavano un panino ascoltando lo scrosciare dell'acqua.
Will non l'aveva mai fatto, perché nella sua posizione
non gli sembrava una cosa dignitosa
e non voleva farsi vedere dai colleghi.
Però anche lui udiva con piacere l'acqua
cantare sul marmo e spesso rallentava il passo,
o comprava un giornale o le caramelle
al chiosco accanto all'entrata,
per avere una scusa che gli permettesse d'approfittare
più a lungo di quel semplice piacere.


Oggi tuttavia non era proprio una giornata come un'altra.
Vi erano poche persone in giro,
e assolutamente nessuno che conoscesse.
Le gambe gli tremavano quel tanto, non sapeva se
a causa della febbre o dell'ascensore dondolante
che gli aveva causato quello strano effetto.

Oggi aveva le sue buone ragioni per prendersela calma,
e all'inferno tutto il resto.

Così scese piano piano i gradini brillanti,
zebrati per non scivolare di strisce nere di gomma
già molto consunte, e si fermò al bacino inferiore della fontana,
sedendosi con fare noncurante sul muretto,
anch'esso di marmo rosa sfregiato di lampi grigi, come tutto il resto.

Si provò a chiudere gli occhi per sentire meglio
le note degli zampilli, ma s'accorse presto che il buio
non aveva stavolta su di lui il solito effetto calmante.

Respirò allora profondamente per dissipare
l'impressione di vertigine che l'aveva afferrato allo stomaco,
ed ebbe l'idea di rinfrescarsi le tempie con l'acqua della fontana.

Quello e poi un po' d'aria libera, pensò, e starò subito meglio.

Non appena immerse la punta delle dita nel bacino
s'accorse che c'era qualcosa che non andava.
La temperatura non era giusta.
L'acqua era tiepida, quasi calda, come può esserla quella
d'uno stagno d'estate, e come l'acqua morta d'uno stagno
aveva un non so che di insensibilmente viscido,
una specie di spessore oleaginoso che a vederla
semplicemente non si sarebbe indovinato.

Will ne fu spiacevolmente sorpreso.

Soprattutto si stupì di non averci mai
veramente fatto attenzione prima.
Eppure avrebbe dovuto capirlo,
vedendo le bolle d'aria prodotte dalla cascatella
esitare così a lungo prima di scoppiare,
riflettendo la luce del lampadario sovrastante in piccoli arcobaleni,
con una lucentezza metallica di benzina.

Will frugò nella tasca esterna della sua cartella
e ne trasse un pacchetto di fazzoletti di carta.

Ne spiegò uno e s'asciugò coscienziosamente le dita,
avendo cura di passare il leggerissimo tessuto anche sotto le unghie,
che aveva bianche, curate e perfettamente rotonde.

Il fazzoletto si disfò presto
in mille minuscoli brani di fibre umide e appiccicose,
obbligandolo a fregarsi vigorosamente
le mani l'una con l'altra per ripulirsene.

Seccato, con la fronte imporporata dalla stizza e dalla febbre,
s'alzò, spinse la porta vetrata, e si ritrovò in strada.

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Il traffico su Queen Street era quello caotico di sempre.
Vi era il solito andirivieni davanti al tribunale,
la fila dei venditori di salsicce sotto i loro ombrelloni,
due o tre accattoni seminascosti negli angoli degli edifici,
e la gente che entrava e usciva, come ad ogni ora del giorno,
dal grande magazzino Simpson's dalla parte opposta della strada.

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Will non vide veramente nulla di tutto ciò perché
lo conosceva fin troppo bene,
vi era abituato a un tal punto che per lui era
come se nulla fosse esistito,
come se la via fosse un grande schermo di televisione,
un'immagine prefabbricata senza importanza alcuna
e senza più spessore di un sogno.

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Appena fuori dalla porta si fermò di colpo sul marciapiede,
cercando invano di ricordarsi
dove avesse parcheggiato l'automobile quella mattina.
Ieri. Forse era stato ieri.
L'aveva lasciata al parcheggio a pagamento presso il teatro.
A meno che non fosse stato stamane, e che ieri invece
avesse scelto il silos sotterraneo del municipio.
Non sapeva da che parte volgersi.
I passanti lo aggiravano con movimenti bruschi,
sfiorandolo ed urtandolo leggermente.

Così non va, pensò Will stringendo i pugni.
Sicuro che aveva posteggiato sotto il municipio.
Non capiva come avesse fatto a non rammentarsene subito.
Doveva essere tutta colpa di questo malessere,
di questa influenza o cosa diavolo era che
gli era saltata addosso all'improvviso.




(Continua...)



 
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Andbeat
view post Posted on 24/8/2007, 14:36     +1   -1




(segue)


Pensare che s'era alzato proprio in forma
e aveva anche fatto un quarto d'ora di jogging prima d'andare al lavoro.

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Comunque ora conveniva aspettare prima di mettersi al volante.
Non avrebbe voluto avere un incidente.
Irritato e distratto come si sentiva,
non sarebbe stato per nulla sorpreso
se gli fosse successo qualcosa.

Ci mancava altro.

Allora sì che si rovinava la giornata sul serio.

Meglio prendersela comoda, fare qualcosa di piacevole
per una mezz'oretta prima di tornare a casa,
per darsi il tempo di far passare il nervosismo che lo aveva attanagliato.

Qualcosa di piacevole, ecco; era esattamente ciò che ci voleva.

Gli tornò in mente allora che da più settimane ormai
Sue gli chiedeva di comprarle un piumino nuovo
visto nel catalogo di Simpson's e lui non se ne ricordava mai.

O piuttosto, non era tanto che non se ne ricordasse;
era che su cinque giorni lavorativi,
quattro volte almeno non gli riusciva di lasciare l'ufficio
prima della chiusura dei negozi,
e il quinto non se la sentiva proprio di andare
a perdersi nelle folle che s'ingolfano,
alle quattro e mezza in punto,
nei grandi magazzini del quartiere.

Mescolarsi alla folla non gli andava granché.

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Nemmeno nella metropolitana, che prendeva molto raramente,
forse solo un paio di volte in tutto l'anno scorso.
Ora poteva permettersi di non dover fare come tutti.
Aveva lavorato duro per poterselo permettere.
Anche a pagare quindici dollari al giorno per il parcheggio,
non faceva niente, valeva la pena.

Non che si credesse migliore degli altri, questo no.
Lui era uno come tutti.
Semplicemente adesso questo era un piccolo lusso
alla sua portata e non vedeva per nulla il motivo di privarsene.

Prima di attraversare lasciò passare il tram,
uno degli ultimi esemplari ancora in servizio
dei vecchi "razzi rossi", i red rockets dei primi anni sessanta,
col muso arrotondato come si concepiva allora l'aerodinamica,
e con strisce di ruggine lungo le porte
e la pittura sbiadita che si scrostava qua e là.

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Da piccolo gli piaceva molto andare in tram,
era quasi una cosa speciale,
un premio per buona condotta.

Proprio com'era speciale andare a gironzolare
tra le infinite meraviglie offerte da Simpson's,
sopratutto prima di Natale,
quando avevano allestito le loro famose vetrine,
ciascuna rappresentante una scena diversa,
un paesaggio invernale, un presepe
o Babbo Natale con le sue renne
e Rudolph col naso rosso che si accendeva e si spegneva.

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Automi che ripetevano lentamente gli stessi movimenti
in un dolcissimo mondo di bambagia, fuori dal tempo,
con mezza città ad ammirare con la fronte incollata ai vetri freddi.

La facciata dell'edificio non era cambiata per nulla,
era solo un po' più grigia, un po' più rigata
di colate di pioggia carica di smog.

Will spinse la porta a tamburo e il rumore della strada
svanì come per incanto, quasi fosse passato dall'altra parte
d'uno specchio, proprio come Alice.

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Pensò ridendo fra sé e sé che era veramente
come se fosse tornato bambino
e avesse marinato la scuola per andare a divertirsi
con gli amici, o a vagabondare
nel reparto giocattoli di un negozio,
felice di sfuggire qualche ora i suoi doveri,
senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze.

Si sentiva già meglio, perlomeno dal punto di vista del morale.
Era un gioco, sì, solamente un gioco,
ma era gradevole, e con questi pensieri
anche il caldo della febbre diventava qualcos'altro,
un calore amico come il ricordo d'un fuoco di legna
quando andava a campeggiare con suo padre
sulle rive dei laghi nella foresta algonchina.

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Adesso era come allora.
Nessuno sapeva dove lui era,
e sarebbe potuto succedere qualsiasi cosa.
Una vera avventura.
Ma il lato rassicurante della faccenda,
che ricordava appunto i divertimenti della sua infanzia,
era che sapeva perfettamente che alla fine
non sarebbe successo niente,
e lui avrebbe potuto tornare a casa, alle sue cose di sempre.

Will non era mai stato in una cattedrale,
ma ne aveva viste nei film come "Il gobbo di Notre-Dame",
e s'immaginava che una cattedrale
dovesse assomigliare molto all'interno di Simpson's,
salvo che probabilmente i soffitti non erano così alti
e ci doveva essere meno luce.

Il piano sembrava quasi vuoto, ma solo perché
era talmente vasto che la gente vi si perdeva
e spariva tra gli scaffali.

E poi non era ancora l'ora di punta e bastava quello
per far sembrare tutto differente.
L'ultima volta che era venuto doveva essere stato
il Natale precedente, a caccia di regali per la famiglia.

Tutta un'altra storia, a Natale.

Il negozio era così pieno che non si poteva fare
un passo senza sbattere addosso a qualcuno.

Ma con le decorazioni, i festoni verdi e rossi sospesi
dovunque e le musichette natalizie trasmesse dagli altoparlanti,
la folla non infastidiva.

Era come spostarsi in una vasca di mercurio,
con gesti soffici, al rallentatore.

Niente di tutto ciò oggi.

Poteva spadroneggiare come voleva,
era come se il negozio fosse aperto unicamente per lui.
Come se avessero saputo del suo arrivo.

Non aveva idea su quale piano si trovasse il reparto casalinghi,
sempre ammettendo che i piumini si trovassero al reparto casalinghi.

La direzione faceva bene attenzione a non mettere troppe indicazioni,
e a far disegnare ai corridoi giravolte ed arzigogoli inverosimili,
che rispecchiavano in un certo modo, all'interno,
le complicazioni stile liberty della vecchia facciata del palazzo.

Labirinti concepiti non per smarrirsi, ma per far trovare.

Per far sfilare ogni oggetto, fino al più minuscolo,
al più insignificante, davanti agli occhi prigionieri del visitatore.

Una caverna delle meraviglie dove i tesori
ignoravano la falsa modestia del mistero,
e si offrivano al primo venuto in grado di far sfolgorare
dinnanzi a loro la magia scontata
ma potente d'un plico di biglietti di banca.

Will ci si sentiva a suo agio.

Era anche lui un gran fattucchiere,
un abile prestidigitatore che aveva più e più volte
fatto sparire da questi ripiani gli oggetti più pregiati,
per farli materializzare con uno schiocco delle dita
nella sua bella villetta in periferia,
col prato all'inglese curato per lui da un giardiniere,
e la piscina a forma di fagiolo per i bambini,
coperta da un telone quando non è in uso per scongiurare gli incidenti.

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Avrebbe potuto chiedere istruzioni a una commessa,
ma preferì non farlo.
Già che c'era poteva guardarsi in giro,
magari trovare qualcosa che gli abbisognava,
o delle idee per dei regali.
Aveva il borsellino ben fornito e, santo cielo!,
poteva permetterselo.

Era poi per quello che lavorava.
Per potersi offrire non solo il necessario e l'indispensabile,
ma forse sopratutto quel superfluo brillante,
vistoso e perfettamente inutile
che accumulava amorosamente
come un monumento alla sua futura memoria.

Spaventapasseri costosi per allontanare le ombre della povertà.
Idoli benevoli e protettori con il tavolino del soggiorno come altare.

Era bello lasciarsi portare dalle scale mobili,
ammirare dall'alto il mare dei colori, delle merci.

Bello anche perché non faceva fatica,
s'appoggiava leggermente al nastro nero di caucciù
e riposava le sue gambe tremanti.

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A mano a mano che s'inoltrava nel negozio
si sentiva sempre più debole.
Non c'era più alcun dubbio.
Si era veramente ammalato.
Se fosse stato ragionevole
avrebbe dovuto lasciar perdere e rientrare,
ma c'era qualcosa di piacevole anche
nel non fare quello che ben sapeva
sarebbe stato più indicato.
Più prudente.

Si sentiva strano, come se la febbre
l'avesse separato dal suo corpo.

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Con la debolezza veniva anche una indescrivibile leggerezza,
una specie d'ebbrezza naturale
e un'impressione di distacco e di pace,
di sonnolenza dei sensi.

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La vista talora gli si confondeva,
ma non se ne dava pensiero, e si divertiva
fanciullescamente a vedere il mondo
come un favoloso caleidoscopio cangiante
di cui era lui stesso il fulcro.

Più tardi, a casa, avrebbe avuto il tempo di curarsi.
Ora voleva guardare, divertirsi,
gustare questa nuova sensazione di libertà,
questo inaspettato regalo che gli faceva la febbre.

Invece dovette sedersi per non cadere.
Durante qualche secondo, o qualche minuto
- non riusciva a capire -
il fantasioso sfolgorio di colori fu rimpiazzato
da un vortice nero velocissimo che lo lasciò stordito,
scosso e disorientato,
come se fosse a lungo precipitato da una grandissima altezza.

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Quando riaprì gli occhi era a casa, sdraiato sul letto,
ancora vestito e calzato, e totalmente incapace
di spiegarsi come fosse giunto fin lì, chi ve l'avesse portato.

Si girò istintivamente sul fianco
per dormire ancora un momento
nella posizione che gli era più congeniale,
sentendo con piacere il suo corpo adagiarsi
nella leggera depressione
che il susseguirsi delle notti aveva creato
nel suo materasso.

Ben presto però dovette rassegnarsi.
La pace del sonno gli sfuggiva.
Non poteva chiudere interamente gli occhi
senza sentirsi nuovamente sprofondare.

Cercò allora di rifugiarsi in sensazioni familiari,
che potessero aiutarlo ad allontanare
quello squilibrio insopportabile di cui era preda.

Si concentrò con dolorosa ostinazione sulla consistenza,
soffice e compatta ad un tempo, del cuscino di piume d'oca.

Riuscì con sollievo a ritrovare tra le coltri
il ricordo del profumo del respiro di Sue.
Si sforzò di sentire il lievissimo scricchiolio
delle molle del materasso, che rispondevano ai suoi movimenti
come faceva le notti quando faticava ad assopirsi
e si obbligava, come uno scolaro reticente,
a studiare i minimi rumori della casa addormentata,
finché questo esercizio gratuito e meccanico
riusciva a fare il vuoto nella sua mente
e a regalargli qualche ora di inesistenza.

Poco a poco si sentì ridivenire padrone di sé stesso.
Senza tentare ancora d'alzarsi allungò la mano
per cercare il bicchiere d'acqua
che poneva ogni notte sul comodino,
ma non lo trovò.

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Le sue dita incontrarono invece un libro e,
istintivamente, lo trasse a sè
gettando un'occhiata alla copertina.

Era un romanzo giallo di uno dei suoi autori preferiti,
ma era un titolo che non aveva ancora letto.
Indubbiamente un pensiero gentile di sua moglie.

Solo allora si accorse della musica, discreta, lontana,
di certo per non turbare il suo riposo.

Pensò che Sue doveva essere nel soggiorno
al piano inferiore ad ascoltare la radio e ad attendere.

Decise che ora si sentiva abbastanza bene
per provare ad alzarsi e a scendere.
Sue doveva essere preoccupata.
Era suo dovere rassicurarla.
Più tardi sarebbe risalito, si sarebbe svestito
e avrebbe riposato ancora un pezzetto,
perlomeno fino all'ora di cena.

Al momento di porre i piedi sullo scendiletto di stile persiano,
Will cominciò a chiedersi cosa c'era di così insolito nella musica.

Dapprincipio non ci aveva fatto a caso,
ma sapeva meglio di chiunque altro che
Sue ascoltava sempre la stessa stazione,
dalla mattina alla sera.

Era un'appassionata di vecchio rock'n'roll e da anni,
da quando la conosceva, non prediligeva altro.
Poteva canticchiare qualsiasi canzone.
Questa musica invece, era differente.
Ci doveva essere qualcun altro in casa.

Will fece uno sforzo, raccolse tutte le sue energie e s'alzò.

Non era la sua musica. Non era la sua casa.
Non era la casa di nessuno.

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Will sentì un nodo in gola e il respiro che gli mancava.
S'accorse con un sentimento genuino di spavento
di non essere mai uscito dal negozio.
Non era veramente successo niente.
Doveva essersi smarrito nel reparto arredamenti,
e quando era stato colto da questa specie di svenimento
si era accasciato senza neppure rendersene conto
sul primo letto che si era trovato vicino.

Era una camera di dimostrazione,
come ve n'erano almeno una decina una accanto all'altra,
separate da falsi muri di cartone.
Forse l'avevano montata quello stesso giorno.
Eppure non c'era da sbagliarsi:
malgrado tutto era anche la sua camera.

Il letto era identico, coi grossi pomelli di legno chiaro lucidissimo,
le stesse coperte dai colori ricchi e discreti.
Il comodino era allo stesso posto,
quel tanto di traverso rispetto all'angolo del muro,
come piaceva a Sue.

Anche il quadro sopra la testata del letto gli pareva lo stesso,
o perlomeno, avrebbe potuto esserlo.

Non ne era veramente certo.
L'aveva scelto l'arredatore.
L'immagine gli sfuggiva,
come se stesse cercando di ricordarsi
un avvenimento lontano, di molti anni prima.

Ma avrebbe sicuramente potuto essere lo stesso quadro.

Will rialzò con dita malferme il polsino stropicciato
della sua camicia bianca e guardò l'ora.
Erano passati quasi quaranta minuti.
Aveva dormito, senza alcun dubbio.
E nessuno l'aveva svegliato.
Nessun commesso s'era stupito di trovarlo
sprofondato su un letto da dimostrazione,
con la fronte imperlata dal sudore appiccicaticcio della febbre.
Non l'avevano visto.
O forse l'avevano visto e non l'avevano notato.

Poteva darsi che l'avessero scambiato per un manichino.

Si allontanò in fretta. La fatica non se n'era andata.
La sentiva ancora come una corrente imprecisa,
una vibrazione incontrollata nei muscoli e nelle ossa,
ma aveva ritrovato un'energia nervosa sufficiente per compensarla.
Ora non voleva cercare più niente.

Gli sarebbe solo piaciuto ritrovarsi subito all'esterno,
lasciarsi dietro tutti quegli oggetti così orribilmente familiari,
così spaventosamente banali e quotidiani.

A ogni passo riconosceva qualcosa.
Il suo maglione preferito,
quello che sua madre gli aveva regalato
per il suo quarantesimo compleanno.

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Poi le scarpe che teneva in serbo
per la gita domenicale in campagna.
Girando un angolo andò quasi a sbattere
contro il tavolo della cucina,
subito riconoscibile per la rifinitura metallica
color verderame che avevano trovato così chic,
così originale.

Frutta e verdure di plastica in un cestello di vimini
facevano bella mostra sulla sua superficie smaltata,
brillando come gioielli sotto la luce cruda degli spot.

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Poco più in là vide la stessa borsa di finissima pelle
che stringeva in mano,
moltiplicata sugli scaffali in numero infinito
come in un gioco di specchi.

Ne distolse in fretta lo sguardo,
quasi avesse incrociato un insetto ripugnante,
e continuò ad avanzare,
cercando di non mettersi a correre,
di non attirare l'attenzione.

Non sapeva esattamente dove si trovasse
né se stesse andando nella direzione giusta
per arrivare alla scala mobile,
ma decise che la miglior cosa da fare era
continuare il più possibile in linea retta.

Se non avesse incontrato le scale
sarebbe tornato indietro fino all'estremità opposta del piano,
e allora non avrebbe potuto mancarle.

Will camminava ora guardando per terra,
così che non s'accorse subito d'essere penetrato in una foresta.

Era una foresta geometrica, ordinata con la purezza di una scacchiera,
linda e priva di qualsiasi odore, del minimo accenno di profumo.

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Gli alberi erano tutti uguali, rigorosamente conici,
studiatamente irregolari nella lunghezza dei singoli rami,
di cui alcuni, sempre gli stessi, sporgevano più avanti degli altri
con meccanica spontaneità.

Il verde profondo degli aghi pareva assorbire la luce,
restituendola sommessamente, cambiata, mutata,
sotto forma di un alone effimero dai bordi imprecisi,
che ricordò a Will la luminosità esangue
che si dica emani dagli spettri.

Erano alberi di Natale, beninteso, pini sintetici
meravigliosamente irreali nella perfezione asettica dei loro dettagli.

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Will pensò con vaga irritazione che era troppo presto.
Mancava ancora una settimana alla fine del mese di settembre.
Non avrebbero dovuto esserci già alberi di Natale in vendita.

La disposizione a scacchiera degli alberi
lo forzava a avanzare a zig-zag
e gli impediva di distinguere i limiti dell'esposizione.

Senza logica apparente alcuni alberi
erano ancora del tutto spogli,
mentre altri erano a tal punto stracarichi
di decorazioni d'ogni genere,
di bocce, di festoni, di minuscoli personaggi,
di ghiaccioli di limpida plastica,
che non era quasi più possibile indovinare il loro colore originale.


Will avanzava testardamente, come un nuotatore contro corrente,
gli occhi così stretti che sembravano circondati da tele di ragno.

Non voleva guardare più niente;
non voleva correre il rischio di ritrovare
ancora altri frammenti sparpagliati della sua vita,
spudoratamente offerti a chiunque,
al primo venuto, perché li provasse,
li soppesasse e glieli rubasse.

Per diventare come lui.
Indistinguibile.

Non voleva vedere più nulla
ma non poté impedirsi di vedere
il gesto della mano che lo chiamava,
il movimento dolce e arrotondato del piccolo,
tenero braccio che s'alzava e s'abbassava
ritmicamente con insistenza per chiedergli d'avvicinarsi.

La scoprì pezzetto per pezzetto,
a mano a mano che scostava i rami rigidi dei falsi pini.

Le braccia scoperte dalla delicatissima carnagione color di pesca,
i capelli folti, biondi con riflessi fulvi,
trattenuti sopra la fronte da un fiocco amorosamente annodato,
le gambette grassottelle che scappavano
da sotto la gonna scozzese assicurata
con un brillante spillone da balia,
i denti di perla intravisti in un sorriso nascente,
e gli occhi fissi, irresistibilmente blu e ciechi,
che gli puntavano addosso
e lo attraversavano come se fosse fatto d'aria.

Will non ne fu nemmeno più sorpreso.

La riconobbe subito, la sua bambina,
ben messa, ben tenuta come sempre,
dolce e desiderabile e semplice con la sua innocenza
un po' altezzosa che le dava quell'aspetto d'un altra epoca,
d'un altra classe, quella distinzione che era tutta sua.

Proprio lei salvo per l'unico grande bottone bianco
che campeggiava sulla sua camicina,
come la smisurata capocchia di uno spillo,
per fissarla accuratamente all'albero tale una farfalla in una vetrina.

E accanto a lei, tutt'intorno,
decine e decine di altre bambole identiche,
meravigliosamente coordinate,
muovendo tutte all'unisono le loro impossibili braccia di ceramica,
acconciate allo stesso modo, egualmente invitanti.

Delle piccole sirene natalizie dai gesti languidi e stanchissimi,
metodicamente infisse sulla corteccia di plastica di un pino artificiale.

Le loro mani aperte si sfioravano senza toccarsi mai.

Will cessò d'affrettarsi, cessò di schermirsi da ciò che lo circondava.

Con grande fatica, ma anche con calmo distacco,
proseguì il suo cammino.

Pochi passi lo fecero uscire dal bosco incantato.
Pochi passi ancora lo portarono infine alle scale mobili,
e poi giù, fino al pianterreno, alla luce fioca
che penetrava dalle porte vetrate.

Disse a Sue che era malato, che forse
gli sarebbe voluto molto tempo per rimettersi,
non sapeva.


Volle andare a coricarsi da solo,
senza poter affermare se era per poter riflettere in pace
o per non essere obbligato a pensare.

Durante la prima serata la febbre aumentò.

Sue, inquieta, chiamò un dottore
che gli prescrisse qualche pillola
e recitò le solite parole rassicuranti.

Will passò la notte a rivoltarsi dolorosamente nel letto,
in preda a sogni confusi.

Sudava molto. La mattina del giorno seguente
non volle nulla per colazione e trascorse la giornata
in uno stato di apatia quasi totale,
facendo appena attenzione alle domande inquiete di sua moglie.

Verso fine pomeriggio, però,
Sue riuscì a fargli ingoiare qualche cucchiaiata di minestra.
La febbre cominciava a calare.

Il giorno appresso Will si alzò,
mangiò due fette di pane tostato spalmate di miele
e parlò brevemente al telefono con Jack,
che voleva avere sue notizie.
Aveva già chiamato un paio di volte il giorno precedente.
Insisteva.
Bisognava rispondergli.
Jack scherzò, facendo finta di fare la vociona
e dicendogli che lo sapeva benissimo che non aveva niente,
e la sua era solo una scusa per battere la fiacca
e restarsene a casa con quella bella sua mogliettina.
Will si sentì ridere.

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Dopo la chiamata bevve un bicchierone di ginger ale
per ingoiare le pillole prescritte dal dottore.

Andava a spasso per la casa, adagio adagio,
guardando tutto e chiedendo ogni tanto a Sue,
che lo seguiva tenendolo d'occhio,
delle domande insignificanti:
perché avevano questa o quella suppellettile;
quando era esattamente che
avevano fatto ridipingere la camera da letto.

Inezie, ma che era ansioso di sapere con precisione.

Perché vi erano certe cose
- disse per cercare di spiegarsi -
di cui non era più veramente certo.

Sue lo seguiva e gli rispondeva pazientemente,
senza capire bene,
ma col sentimento che era la miglior cosa da farsi
e la vaga impressione d'aver scampato di un pelo a una catastrofe.

Il sentirlo ridere, prima, al telefono,
l'aveva rassicurata.
Era indubbiamente buon segno:
lui di solito rideva sempre facilmente.

Quella serietà, quella tristezza,
dovevano essere state causate dalla malattia.

A mezzogiorno gli preparò il suo piatto preferito:
costine con le patate al forno e l'insalata.

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Dapprima Will dovette sforzarsi,
ma s'accorse che più mangiava,
più gli veniva fame.

Will chiese a che ora usciva la bambina da scuola.
Non lo sapeva perché normalmente
non era mai a casa al momento del suo ritorno.

Pensare alla piccola lo rese inquieto.
Sue volle rimandarlo a coricarsi,
ma lui non smetteva di alzarsi ogni pochi minuti,
chiedendo costantemente quanto tempo
mancava ancora prima delle quattro.

Ogni qual volta sentiva un rumore voleva andare alla porta,
caso mai fosse già lei, in anticipo.

Quando finalmente la piccola tornò volle tenerla presso di sé,
seduta sul divano, e si fece raccontare nei dettagli
che cosa avesse fatto durante la giornata.

Stette a lungo ad ascoltare i suoi vivaci pettegolezzi
sui compagni di scuola, limitandosi a sorridere
e a fare lenti cenni del capo, quasi senza parlare.

La sera si versò un paio di scotch con ghiaccio,
forzando un po' la dose,
e sentì che gli facevano un gran bene.

Sue lo convinse a guardare un film di spionaggio alla televisione,
in camera da letto, fino a tardi.

Aveva bisogno di un po' di distrazioni e di riposo,
gli ripeteva sempre, era tutto lì.

Will s'assopì con lo schermo ancora acceso
e dormì tutta notte d'un sonno di piombo, senza sogni.

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Il giorno seguente pensò che
avrebbe anche potuto tornare al lavoro.

Non gli pareva normale dover stare a casa,
gli mancava la sua routine.

Però, visto che era già venerdì e la settimana
era andata perduta lo stesso, non ne valeva la pena.

E poi Sue non voleva saperne di lasciarlo andare.
Per fortuna aveva portato a casa delle pratiche
di cui non aveva avuto il tempo d'occuparsi in ufficio
e si mise a riesaminare quelle.

Ce n'erano più di quante credesse e la sera arrivò
senza neanche che si fosse reso contro dello scorrere delle ore.

Il week-end passò allo stesso modo, senza storia,
portandosi via goccia a goccia la poca febbre residua.

Domenica sera, al calar del sole, Will Hale non si ricordava
già più d'essere mai stato ammalato in vita sua.

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1 replies since 24/8/2007, 06:46   524 views
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